Intervista


Katres

Un’Araba fenice che non dimentica le radici e il passato: “Quando stai bene e sai ciò che vuoi, puoi ottenerlo ovunque e quindi ero pronta per tornare a casa”

Io e Katres, nome d’arte di Teresa Capuano, ci incontriamo allo Sparwasser, prima dell’inizio di Note vocali, l’ormai consueto appuntamento di Exitwell con il meglio del cantautorato italiano in circolazione.
Il 23 febbraio è uscito il secondo album di Katres, Araba fenice, e noi di Lester ne abbiamo parlato insieme a lei.


Innanzitutto complimenti per il tuo nuovo album, Araba Fenice, perché è un lavoro maturo, equilibrato e intenso. Come nasce?
Nasce da un grande lavoro di ricerca e di sottrazione. Inizialmente scrivevo cose storte, strane ed enigmatiche e poi attraverso un processo di semplificazione sono arrivata a dire quello che avevo dentro nella maniera più diretta possibile. Questo disco nasce dalla gran voglia di raccontare, in questo caso, la rinascita a cui si riferisce il titolo.

Il disco è prodotto da Daniele Sinigallia, come vi siete incontrati e come è stato lavorare con lui? Quanto ha inciso nella veste finale dei pezzi e dell’album?
Ho conosciuto Daniele grazie a Dap, che canta e suona il piano proprio in Araba Fenice, perché ha registrato con lui il suo album. Io già amavo le produzioni precedenti di Daniele, quindi quando ho saputo che Dap e lui stavano lavorando insieme, gli ho chiesto di portarmi in studio e di farmelo conoscere. In quell’occasione gli ho fatto sentire delle cose, lui in seguito mi ha detto che gli sarebbe piaciuto lavorare al mio disco e quindi da lì è partita la nostra collaborazione. È stato un incontro molto importante in primis a livello umano e ciò ha permesso che poi l’aspetto artistico viaggiasse spedito, perché nella maggior parte dei casi eravamo d’accordo e trovavamo sempre soluzioni giuste per entrambi. Da un artista come lui c’è sempre e solo da imparare ed è stata una bellissima esperienza.

Sei nata a Catania, ma vivi a Napoli, la Giungla dischi invece è un’etichetta romana. Che rapporto hai, musicalmente, con queste tre città? Cosa hanno da offrire?
Catania è la città in cui sono nata ed ero molto piccola quando mi sono trasferita a Napoli, ma avendo metà famiglia siciliana, le estati le ho sempre passate in Sicilia, quindi questo mi ha permesso di mantenere un legame molto vivo con quei luoghi. Napoli è la città in cui sono cresciuta e in cui ho cominciato a muovere i miei primi passi in musica e a fare le mie prime esperienze artistiche. Anche Roma è una città importantissima, perché ci ho vissuto per sei anni e anche qui ho avuto grande spazio e grandi possibilità di esprimermi e di crescere musicalmente. Poi sono tornata a Napoli, perché ad un certo punto ho sentito il bisogno di tornare a casa ed è stato lì che poi ho apprezzato realmente Napoli, perché c’è stato un periodo in cui mi dicevo che dovevo andarmene, che niente funzionava, ma poi mi sono resa conto che ero soltanto io. Quando stai bene e sai ciò che vuoi, puoi ottenerlo ovunque e quindi ero pronta per tornare a casa.

Dato che hai vissuto anche a Roma e quindi conosci bene anche questa realtà, secondo te che differenza c’è fra la scena romana e quella napoletana?
La scena napoletana è “napoletana”, hai detto bene, perché c’è un fermento vivissimo, soprattutto in questi ultimi anni e continuano a nascere nuovi progetti che però si mantengono legati alla tradizione, ad esempio i Foja, La Maschera, Fede ‘n’ Marlen. Anche a Roma c’è una realtà molto viva, in parallelo alla storica scuola romana di Fabi, Silvestri, Gazzé, gli stessi Daniele e Riccardo Sinigallia, c’è proprio un sound, un suono che è loro. Infatti uno dei motivi che mi hanno spinto a lavorare con Daniele Sinigallia è stato il suono delle sue produzioni, come se ci fosse un mondo intorno che lo rendesse riconoscibile. Quindi da una parte c’è Napoli che è percorsa da questo nuovo Neapolitan power e dall’altra c’è Roma che conserva questa sua bellezza, al fianco della nuova scuola di Calcutta, Galeffi, eccetera, che è anche molto interessante.

Come mai hai scelto di proporre quella bellissima cover che è Mokarta? È una canzone dei Kunsertu, un gruppo siciliano attivo dal 1980 alla metà dei ’90 e che io ho scoperto proprio grazie a te, tra l’altro.
Questo è un disco che parla di distruzione e poi rinascita, di fioritura, quindi attraverso questa immagine volevo dire che, superando una difficoltà dietro l’altra, ti riscopri una persona coraggiosa e più forte, ti stupisci quasi di come tu sia riuscita a superare certi momenti. Quindi sì, volevo ribadire di essere diventata la persona che sono oggi, ma non volevo dimenticare la persona che ero stata e per questo ho voluto inserire Mokarta, che inoltre fa parte della mia adolescenza, perché quando passavo le mie estati in Sicilia, ad ogni concerto veniva riproposta dalle varie cover band del posto e mi trasmetteva tanta gioia e tante emozioni. 

Non so se ti è mai capitato di riflettere su questo, ma volevo chiederti cosa significa, nel mondo della musica indipendente, essere una donna tra non molte donne e invece molti uomini.
Guarda, proprio stamattina stavo scatenando una polemica per questo motivo, perché ho letto un articolo, non ricordo dove, che parlava di quelli che secondo l’autore sarebbero stati i dieci artisti italiani più promettenti del 2018, ma non c’era un’artista donna! Ma possibile che su dieci musicisti che citi, non ci sia una donna che non faccia cagare e che non meriti di essere inserita in una lista del genere? C’è un maschilismo allucinante, le donne vengono quasi del tutto ignorate e ti assicuro che ci sono tantissime cantautrici bravissime. Io magari noto che ci sono cantanti uomini che non sono bravissimi a suonare o a cantare, che magari sono un po’ bruttini. Pensa se fosse al contrario, una donna in questo caso verrebbe semplicemente considerata una sfigata e non verrebbe presa in considerazione. Nel mondo musicale inoltre molti ruoli tecnici sono quasi ad esclusivo appannaggio degli uomini, penso ad esempio al fonico o a chi registra, quindi è un ambiente molto maschilista, perché per la maggior parte popolato da uomini. Le donne ci sono. Ad esempio a Roma c’è Giulia Ananìa, che è una mia cara amica ed è una musicista e cantautrice talentuosissima, c’è Studio Nero che è gestito da un fonico donna. Insomma, sono ancora poche rispetto agli uomini, ma sono comunque bravissime! Il fatto che, ancora oggi, io legga spessissimo degli articoli in cui si fanno delle liste che non nominano neanche una cantautrice non riesco a spiegarmelo.

Com’è stato trasformare il dolore, che ha preceduto la tua rinascita, in energia, che tu trasmetti in modo molto efficace; e poi questa energia in musica, sia a livello artistico che personale.
A livello personale ti posso dire che c’è stato un periodo di buio totale e, come ti dicevo prima, proprio da questo buio ho iniziato a volere e a vedere la luce. Lì ho riscoperto una forza che non credevo di avere e che ho messo nelle composizioni, però devo dare il merito anche a Daniele, perché poi a livello di sonorità è riuscito a cogliere quello che era il mio bisogno di mostrare qualcosa di esplosivo che era successo. Il mio primo disco (Farfalla a valvole, Fullheads, 2013 – n.d.r.) era caratterizzato da strumenti acustici e suoni delicati (ho usato anche delle foglie), invece qui sentivo il bisogno di farlo suonare in maniera più potente.

Anche la voce mi è sembrata più graffiante, rispetto al tuo primo disco.
Infatti, sai, ascolto il mio primo disco e mi dico: “Ma sono io?”. È allucinante questa cosa, sento proprio la differenza, ma forse questo è anche dovuto al fatto che con gli anni impari a conoscere talmente bene il tuo strumento che poi sai utilizzarlo anche in maniera diversa.

A proposito di esperienza, hai vinto dei premi, come il Premio Siae al premio Bianca D’Aponte, e hai aperto i concerti di Ermal Meta, Zen Circus, hai suonato prima di molti artisti in svariate occasioni. Tutto questo cosa ti ha dato e quanto ti ha fatto crescere?
L’esperienza più recente fra queste è il tour con Ermal Meta e stare al fianco di un artista come lui, che viene dal nulla e ha fatto una gavetta durata anni e anni, per me è stato una vera e propria scuola, perché ho visto un ragazzo che non si è risparmiato in nulla, guidava da solo la macchina, arrivava, faceva il concerto con un’energia incredibile, tant’è che io dicevo ‘guarda, se riesco ad avere il 30% dell’energia che hai tu, mi sentirò Wonder Woman!’, perché ha una forza pazzesca, che però viene solo da una gran sete che tu hai avuto per anni, e anche se ti stai dissetando, non ne hai ancora abbastanza e dai e vuoi sempre di più. Mi è stato di grande insegnamento, mi sono resa conto del fatto che oltre a quello che avviene sul palco, c’è tutto quello che viene prima e dietro, quindi tanta fatica sia fisica che mentale.

E com’era aprire i concerti, riscaldare il suo pubblico?
Era bellissimo. Mi sono ritrovata a suonare all’Auditorium Parco della Musica, al teatro Ariston, è stata un’emozione enorme, sentivo una botta emotiva fortissima e unica. È stato davvero molto importante per me.

Allora complimenti e in bocca al lupo per tutto!
Grazie, un saluto a voi!

Intervista raccolta da Ilaria Pantusa

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