LESTER PIÙ #1

La ballata del gatto Jones

LESTER PIÙ – I Sensi si mischiano e si confondono, si assegnano ruoli inediti e subentri. L’udito che non ha mai visto, ci vede di più.
Che si tratti di Letteratura, Cinema o Arti Figurative, abbiamo una patologia, che ci costringe nell’essere Umani curiosamente completi, che si muovono in ampi spazi culturali. Solo che, ogni volta che fronteggiamo un’opera d’arte, abbiamo una colonna sonora ad hoc che parte. Autonoma.
Soprattutto a Roma. Tranquilli: contiamo anche di segnalarvi gli eventi che provocano grandi acuti della nostra disfunzione. Per sentirsi meno soli.

Rubrica a cura di Marco Pacella e Angelo D’Elia

 

Da Bob Dylan ai Residents, nel mondo onirico dei fumetti di Matticchio

“Because something is happening here / But you don’t know what it is / Do you, Mister Jones?” (Perchè qui sta succedendo qualcosa / ma tu non sai cos’è / vero, mister Jones?): con queste parole Bob Dylan cadenzava la sua splendida ed enigmatica Ballad of a Thin Man, chiudendo così il lato A di Highway 61 Revisited, anno di grazia 1965.

A quel Mister Jones cantato da Dylan ne accadono davvero tante, in un crescendo allucinato di incontri improbabili e scenari che cambiano in un battito di ciglia. Non è un caso, dunque, che un illustratore e fumettista coltissimo e appassionato di musica (e del Menestrello, ça va sans dire), Franco Matticchio, ne abbia ripreso nome e atmosfere per creare il suo gatto Jones, protagonista di pagine di pura fantasmagoria onirica su Linus, dalla metà degli anni ’80 (raccolte ora da Rizzoli Lizard nel volume Jones e altri sogni, 253 pp., 25 euro).

Nelle parole dello stesso Matticchio, Jones è “il protagonista disincantato di storie apparentemente senza senso, una volta è finito addirittura in prigione per sbaglio. Non parla quasi mai. Non è un gatto”. Ma un gatto lo è davvero, seppur reso più umano da pantaloni da lavoro, camicia bianca, guanti, bretelle e un’immancabile benda nera su un occhio. Che Dylan aleggi fra le pagine di Jones è quindi un dato di fatto: taciturno e costantemente meravigliato da ciò che lo circonda – e ne ha ben donde – il gatto si ritrova catapultato in un mondo che più che surreale si direbbe metafisico, con animali dispettosi, cuscini che scappano dal suo letto in poetiche fughe d’amore e brevi avventure quotidiane che si concludono nell’arco di una manciata di vignette. La sua non è una realtà lontana e improbabile, ma quasi un mondo che c’è già, se solo si scosta la sottile pellicola delle apparenze razionali. In questo, oltre al faro musicale di Duluth, lo aiutano altri richiami, dal cavallo Samuel Beck (chiaro omaggio a Beckett) ad AHI, personaggio in frac che ha per testa un grande bulbo oculare: e qui torna in gioco la musica, nella realtà deformante e onirica dei Residents.

Sembra che Matticchio lavori senza canovaccio, partendo da un’intuizione fugace per lasciarsi trasportare in un percorso intricato, colpo su colpo, dai suoi stessi personaggi. Disney incontra de Chirico, Magritte e Jacovitti si stemperano rarefatti nel tratteggio di Roland Topor. È una valanga di riferimenti e apparenti punti d’appoggio, calibrata consapevolmente fra alto e (presunto) basso, come se davvero si potesse affettare la cultura incasellandola in comparti stagni. E la musica va a ritmare il tutto, complicando se possibile i piani di lettura, più che spiegando il senso una volta per tutte. (Marco Pacella)

La ballata del gatto jones

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