LESTER PIÙ #2

Jean Michel Basquiat

LESTER PIÙ – I Sensi si mischiano e si confondono, si assegnano ruoli inediti e subentri. L’udito che non ha mai visto, ci vede di più.
Che si tratti di Letteratura, Cinema o Arti Figurative, abbiamo una patologia, che ci costringe nell’essere Umani curiosamente completi, che si muovono in ampi spazi culturali. Solo che, ogni volta che fronteggiamo un’opera d’arte, abbiamo una colonna sonora ad hoc che parte. Autonoma.
Soprattutto a Roma. Tranquilli: contiamo anche di segnalarvi gli eventi che provocano grandi acuti della nostra disfunzione. Per sentirsi meno soli.

Rubrica a cura di Marco Pacella e Angelo D’Elia

 

Metropoli, musica e dramma nella nuova mostra romana

Chiostro del Bramante, fino al 2 luglio 2017

“Non so descrivere il mio lavoro. […] È come chiedere a Miles come suona la sua tromba”.
Ecco, potremmo iniziare da qui, da questa risposta che Jean-Michel Basquiat – straordinario pittore newyorkese nato da padre haitiano e madre portoricana – rilascia a Tamra Davis nell’intervista che andrà a comporre anni dopo il bel documentario The Radiant Child.

Che Basquiat pensi a Miles Davis non è certo un caso. Stimolato fin dall’infanzia dai cartoon in tv, dalle visite con la madre nei musei in città e dalle note jazz che provengono dal giradischi acceso nella stanza del padre, Jean-Michel intesse pian piano quel linguaggio diretto, anche feroce quando serve, che lo porterà a raggiungere un posto di primissimo livello nel panorama artistico degli anni ’80.
All’artista – morto di overdose nel 1988, a soli 27 anni – è dedicata al Chiostro del Bramante di Roma l’ottima mostra JEAN-MICHEL BASQUIAT. New York City (Opere dalla Collezione Mugrabi), fino al 2 luglio.

Nei suoi dipinti convergono numerosi stimoli, dalla metropoli americana pesantemente imbevuta di neoliberismo reaganiano alla gestualità violenta filtrata attraverso la generazione dell’Espressionismo Astratto, ma anche una consapevolezza stupefacente e fiera del proprio ruolo di artista afroamericano di successo, in una nazione che rivela fra le sue crepe uno strisciante razzismo e che si traduce qui in un primitivismo mai di maniera, piuttosto drammaticamente esibito, vissuto.

E poi la musica: quanta musica c’è nelle pennellate di Basquiat. Di improvvisazioni jazzistiche tradotte in linee e colori si parla spesso nell’arte del ‘900, fin dalle danze d’azione nel dripping di Jackson Pollock. Ma Basquiat rende tutto estremamente evidente. Numerosi filmati ce lo restituiscono mentre lavora, balla e sorride davanti alle grandi tele sulle note di una immancabile radio a tutto volume che rimbomba nello studio. Diceva di ascoltare di tutto, ma di preferire le ritmiche del bebop. Ha avuto persino una band, i Grey (da Henry Gray, autore di quell’Anatomia da cui trarrà numerosi spunti per le sue immagini) in cui suona clarinetto e synth e che annovera fra i suoi membri un giovane Vincent Gallo.

Le sale della mostra romana ripercorrono tutto questo e molto altro (come non citare, ad esempio, le tele realizzate a quattro mani nel 1984 con il più anziano Andy Warhol), restituendoci un Basquiat polimorfo, inquieto, come è giusto che sia per un artista che della schizofrenia creativa ha fatto una delle sue cifre stilistiche più marcate.
Serve altro per prepararsi? Beh, forse un’altra visione Basquiat – il film omonimo diretto da Julian Schnabel nel 1996 – la merita. Soprattutto perché nei panni di Warhol – che in verità gli calzavano a pennello – fa la sua parte un certo David Bowie. (Marco Pacella)

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