Musica Afro-americana

Mojo Station Blues Festival

26/28 maggio 2016 – Monk (Circolo Arci)
Variegato, affidabile, sorprendente: il Mojo è certezza

Photo by Marco Mancini / www.marcoshoots.com

Anche la 12esima edizione del blues in festival a Roma è terminata. Anche la 12a è andata e ottimamente. In virtù di una passione ed una competenza mature, il Mojo riesce ogni anno ad offrire spaccati fedeli dell’universo blues e delle sue diramazioni, con un recupero a volte persino filologico del passato, con occhi vigili sul presente. La parola decisiva è ‘continuità’, così come il flusso del blue è parte di tutti, anche se non da tutti scoperto.

Giovedì 26

Filo di continuità, quest’anno, simbolicamente rappresentato dal ritorno di Luther Dickinson, che aveva chiuso la passata edizione e che ha assunto il ruolo di acuto testimonial del festival, aprendo le danze giovedì 26, in compagnia del romanissimo Belly Hole Freak e di Angelo ‘Leadbelly’ Rossi.
Il ruolo dei gregari è fondamentale in questo festival, come in verità dovrebbe sempre essere. La serata di apertura, da questo punto di vista, è stata inequivocabile, dato che i 2 ‘Belly’ hanno potuto raccogliere il consenso unanime dei presenti, a cui zio Lester, come ogni volta, chiede anche lumi. L’ultimo album del primo, Superfreak, è emblematico dell’attitudine del nostro concittadino, molto apprezzato all’estero e che ha potuto beneficiare di un pubblico non numerosissimo in apertura, ma comunque nuovo e positivamente stupito dal suo boogie tentacolare: Massimiliano Annucci è, probabilmente, la versione migliore fra le disparate one man band presenti sul suolo capitolino, per fantasia, perché primo per capacità di produrre un suono davvero pieno, personale, con pochi attrezzi, quindi credibile nei panni che veste. Un plauso in più, va detto, è da fare alla sua ‘mobilità’!
In modo differente, Angelo Rossi ha mostrato gran dose di personalità e coraggio, pur inscrivendosi più marcatamente nel solco di una tradizione: rude ma non impenetrabile, tira fuori una delle voci più vissute che si abbia avuto modo di ascoltare, subdola per come si insinua; in più, il nostro ha avuto modo di chiarire qual è il suo approccio alla chitarra, accompagnando Dickinson in una comparsata ficcante, più di come era riuscito a fare nella sua esibizione, in acustico, con tagli netti e decisi, crudamente elettrico.
In un’orgia di coerenza, il concerto dello stesso Dickinson di gregari si è dipinto, visto che ad accompagnare l’americano alla batteria c’era Gianluca Giannasso, dei tanto apprezzati Dead Shrimp, inoltre, dello stesso gruppo romano, Poor Bob è stato protagonista dell’altra comparsata della serata. Esibizione sulla scia della passata, ma più fitta e definita, priva delle lunghe divagazioni dello scorso anno, ma migliore per godere delle diverse anime di Luther, davvero a suo agio a Roma, ormai di casa, anche se la sua permanenza è durata il tempo di pronunciare Blues & Ballds, titolo del suo ultimo disco. (continua)

Venerdì 27

Il Mojo Station, supportato da Amnesty International, si è aperto decisamente al mondo nella seconda serata, con artisti dalle suggestioni esotiche, l’Africa nel cuore e differenti umori nelle corde. Venerdì 27 si è esibito Samba Tourè, a parere di chi scrive la gemma del festival, quel tocco differente che consente un salto, e non solo in termini di prestigio, ma esattamente per la qualità della proposta.
Il Madya Diebate Trio, tra Senegal e Italia, è stato avvincente e coinvolgente, vittime come siamo potenzialmente tutti dell’ineguagliabile fascino delle sonorità africane, qui demarcate dal kora suonato da Madya, ma anche per l’immediatezza di composizioni molto simili nella struttura, con una chiave ritmica folk e un’attitudine alla digressione dal sapore rock. Difficile rimanere immobili: qui si vedono le prime tracce di armonie ipnotiche sublimatesi con l’arrivo di Samba Touré.
Con Touré, lo stimolo al viaggio pizzicato dal trio di Madya si è fatto carovana, la cadenza insistente quindi profondamente ipnotica, ci si è spostati in Mali. Dal vivo la musica di Samba è ammaliatrice, un turbinio goduriosamente strascicato di note che si conficcano nel cervello e mirati ritmi tribali tempestivamente catartici. Se non fosse per l’evidente richiamo della madrepatria diremmo di un set altamente/diversamente psichedelico, con l’impatto di una The End di doorsiana memoria (!), della quale il concetto e l’indole del riff portante viene fatto manifesto di un mantra purificatore. Mondi lontani per sensazioni universali, la musica nella sua veste di matrice universale. Gran bel gruppo a supportare Samba Touré, con speciale menzione per l’organo percussivo, il calebasse, amalgama totalizzante. (continua)

Sabato 28

Sabato sera, infine, anche con un ritorno a sonorità più classiche non sono mancate le sorprese. La splendida e colorata Pink Puffers Brass Band ha aperto il main stage, dopo che a scaldarci ci hanno pensato la giovane e carismatica artista neozelandese di origini ghanesi Leila Adu, che ha deliziato i presenti con una esibizione piano/voce di eccezionale espressività e 2 componenti della Mojo Rail Company, Ludovico Cipriani e Matteo Palpacelli, con il loro blues semplice ma fortemente evocativo.
La brass band è romana, composta di 8 elementi (1 sax, 2 trombe, 2 tromboni, 1 tuba e 2 percussioni), pur suonando un new orleans second line – arricchito di funky – pur non avendo nulla da invidiare alle brass band d’oltreoceano. Trascinanti fino al midollo sin dalle prime note, sul palco o anche giù di lì, hanno portato il delirio al festival, ritmi incandescenti e ottima partecipazione del pubblico.
Il tempo di una birra che si è fatta viva la star del giorno, quel Mr. Cedric Burnside attualmente miglior rappresentante al mondo di hill country blues. Questo giovane e vigoroso ragazzone dal sorriso raggiante come il sole, ha iniziato prima da solo, con voce e 2 chitarre, in maniera intima e soffusa. Raggiunto, poi, dal talentuoso chitarrista Trenton Ayers, si è accomodato dietro le pelli. A questo punto l’atmosfera è diventata rovente per rimanere tale fino alla fine. La dinamica visiva, con i due sistemati in posizione opposta, si è rivelata totalmente speculare alla loro intesa, perfetta, con Trenton e il suo cappello da cowboy a coprirgli il volto da una parte, immobile in tutto tranne che per le mani che scivolavano fluide sulla tastiera della chitarra, con Cedric che si dimena come un forsennato dall’altra, picchia come un fabbro e muove la testa a seguire il ritmo sempre con il sorriso stampato sul volto. Groove: sono in 2 ma sembra che ci sia un’intera band sul palco.
Verso la fine, è risalita sul palco anche Leila Adu, per dar vita ad un set improvvisato in cui la calda voce dell’artista neozelandese ha regalato ulteriori brividi ad un pubblico in delirio. Gli ultimi 2 brani hanno incendiato tutto, poi Cedric ha ringraziato calorosamente il pubblico e salutato una Roma che gli vuole sempre più bene!

Variegato, affidabile, sorprendente. Il Mojo è certezza. Ecco. Non una canzone da citare. Solo un flusso, unico e ondulante, fra latitudini blue del mondo. (SEO – con la collaborazione di F.DiG.)

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