Folk

Bea Sanjust

Bea Sanjust – (Foto di Nael Manuela Simonetti)

 

Un piano ben riuscito

10 febbraio 2017 – Black Market San Lorenzo

LIVE REPORT – Avevamo già posato occhi e, sopratutto, orecchie su Bea Sanjust (sì, c’è stato un generale restyling, sì, si può parlare di un nuovo inizio, ma siamo pur sempre NOI, e sembra appropriato dare un senso di continuità). Ci avevano colpito le atmosfere delicate e sognanti di Larosa, primo album a propria firma di questa folk singer divisa tra Italia e terre d’Albione (numerose le collaborazioni e i progetti, prima di giungere a questo traguardo).

Il Black Market di San Lorenzo fornisce un’atmosfera intima, raccolta e soffusa, particolarmente adatta ad una proposta musicale fuori dal tempo, certamente memore di certo folk barocco molto in voga a cavallo tra i ‘60 ed i ’70 (vien da pensare a Sandy Danny e i suoi Fairport Convention), senza però mai risultare troppo anacronistica o derivativa.
La scaletta predilige, ovviamente, i brani di Larosa, con qualche concessione al passato. Bea Sanjust si presenta in duo, gli arrangiamenti sono più scarni rispetto a quanto ascoltato su disco, ma in questa veste, risaltano ancor più evidenti le qualità da performer di Bea, che tiene la scena in maniera impeccabile. Dal vivo, la sua voce assume ancor più sfumature, si alterna tra chitarra acustica e ukulele, tra un pezzo e l’altro si prende il suo tempo per accordare gli strumenti e raccontare cosa c’è dietro al prossimo brano: con sincerità apre una finestra sul suo mondo fatto di piccole storie, una finestra a cui, per circa un’ora di esibizione, ci affacciamo con piacere e curiosità.

Ma questo piccolo mondo, non sarebbe così interessante da visitare senza il fondamentale apporto del suo sodale Simone De Filippis. Polistrumentista di grande qualità, imbastisce una piccola e ricercata sinfonia di rifrazioni e coloriture. Con l’ausilio di chitarra, synth, e-bow, e con qualche piccolo inserto vocale, riesce a creare un continuo contrappunto che dà profondità e spessore ad un sound che si regge su un equilibrio sottilissimo, senza mai risultare invasivo o fuori luogo.
Spazio in scaletta, poi, per una cover che, a mio parere, riassume l’intero senso dell’operazione. Si tratta di Sugar Man di Sixto Rodriguez. Un cantautore che negli anni ’60 incise due meravigliosi album che finirono presto nel dimenticatoio, ma che grazie alla tenacia di alcuni appassionati e di un giornalista (per l’intera storia vi rimando all’imprescindibile documentario del 2012 Searching for Sugar Man), pochi anni fa, è riuscito ad avere gli onori che gli spettavano, diventando una figura di culto in tutto il mondo. Questo si rifà molto al concetto di musica senza tempo che accennavo all’inizio, perché “Se non è nuova e se non invecchia mai, allora è musica folk”. (Angelo D’Elia)

 

 

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