ONE MAN BAND


Matteo Senese (aka Bonny Jack)


This fire will burn you out


di Angelo D’Elia

RECENSIONE – Ed ecco il disco che non ci si aspettava! Certo, conosciamo vita morte e miracoli (presunti) di Matteo Senese, chitarrista dal percorso ormai pluridecennale, che ha avuto tempo e modo di dimostrare, confermare e riconfermare le sue qualità. Ma è passato davvero poco tempo da quando ha deciso di issare il nero stendardo del Jolly Roger, vestire i panni di capitan Bonny Jack ed avventurarsi in solitaria nel mare tempestoso ed irto di pericoli della musica underground capitolina.
Il disco in questione ci era stato annunciato come un EP, ci si aspettava quindi nulla di meno di una prova di buona qualità, magari un po’ acerba, una sorta di collaudo generale per un percorso in divenire, e invece…

Ci si perdoni il tono vagamente paternalista (cominciamo anche noi ad arrugginire, cosa credete), ma è davvero bello rimanere così piacevolmente sorpresi dalla maturità e dalla estrema consapevolezza di un lavoro nato quasi dal nulla, perché, diciamolo chiaramente: Bone River Blues è davvero un gran disco. Matteo, come si diceva, è un chitarrista di grande esperienza, un profondo conoscitore delle dinamiche dello strumento (anche insegnante – n.d.r.), che è sempre riuscito ad addomesticare una tecnica sopraffina in virtù di un gusto per il suono orientato verso il classico, ma mai scontato o banale.

Si è sempre messo al servizio del progetto in cui era coinvolto, che siano le trame electro – stoner dei Julien (e si parla di un bel po’ d’anni fa) o lo schietto rock n’ roll della Banda Anonima Romana (progetto attivissimo, di cui aspettiamo con ansia un secondo capitolo). Anche in questo caso, Matteo Senese tratta la chitarra con rispetto, dosando i timbri, calibrando vuoti e pieni, con particolare attenzione alle sfumature, tirando fuori un suono davvero sorprendente, per quella che in definitiva è una home recording.

Sette tracce all’insegna di un rock blues indolente, che non ti aggredisce, ma si prende il suo tempo per entrarti sottopelle, forte anche di un gusto melodico che è il vero valore aggiunto dell’opera: le composizioni sono ben suonate, hanno il giusto piglio e, soprattutto, ti si conficcano nel cervello perché sono anche maledettamente orecchiabili! Si prenda come esempio un pezzo come Howlin’ in the Night (per chi scrive, il migliore del lotto), con il suo ciondolante riff di slide guitar che ad un certo punto si ferma per lasciare spazio ad un semplice handclapping che ci accompagnerà fino alla fine della traccia: sono questi  piccoli accorgimenti a fare la vera differenza e ad invogliarti al riascolto. Oppure Marv and Goldie (ogni riferimento a Sin City è puramente voluto) con un groove ed un ritornello talmente trascinante da poter tranquillamente entrare in heavy rotation in una qualsiasi emittente radio statunitense.

Forse il livello generale si abbassa leggermente quando il nostro tenta di replicare la forma blues in maniera più canonica, come in Blue Morning Blues, che ricorda molto il modo in cui i Tito y Tarantula trattano le 12 battute (il cinema di Robert Rodriguez deve essere davvero un punto fermo nel suo immaginario…), o nella rivisitazione dello standard Sweet Petunia, che comunque contiene al suo interno un solo davvero gustoso.
Se queste sono le premesse, il nostro capitan Bonny Jack parte davvero con il vento in poppa, perché di dischi così puramente Rock – con tutto ciò che questa sacra parola comporta – al giorno d’oggi se ne sente davvero la mancanza. Il nostro invito è quindi quello di salire a bordo, perché se questa nave è soltanto al viaggio inaugurale, chissà quali straordinarie avventure le riserva il futuro.

 

Bonny Jack – “Bone River Blues”
(Autoprodotto, 2020)

Ascolto obbligato: Howlin’ in the Night

 

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