CANTAUTORATO


Luciano D’Abbruzzo (presso Fondazione Malvina Menegaz)


Bozzoli d’Arte 


di Pietro Doto

RECENSIONE – La voce di Luciano D’Abbruzzo, colma e traboccante d’avorio com’è, potrebbe bastare a sé stessa e a tutti noi. Il guardiano del bosco è esattamente lui, che di mestiere vive e nutre la pregiata solitudine della boscaglia. Il disco ci restituisce un artista genuino che fa della sua posizione ‘privilegiata’ nel mondo una cifra fondamentale della scrittura, anche se non imprescindibile, perché l’affondo delle sue interpretazioni rimanda a quel mondo, sì, ma come specchio di una fitta attività interiore.

Oggi e con quest’opera, il cantautore si è fatto più canonicamente cantautore, lasciandosi alle spalle tutte le scorie rock di una vita che sembra leggermente lontana. Non che dispiacesse la sue veste passata, ma se c’è una cosa da dire subito su questo disco, dominato da piano e voce, è che senza orpelli (di alcun genere) Luciano mostra di poter brillare davvero di luce propria. Inoltre, così risalta maggiormente la sua nudità espressiva, la sua risolutezza ad aprirsi senza vincoli né reticenze.
Dal minimalismo educato e struggente degli arrangiamenti, emerge la delicatezza di melodie pure, incredibilmente empatiche. Nei testi, una concitazione emotiva non trattenuta, quanto domata, ci racconta di emozioni essenziali, epicamente comuni. Il guardiano del bosco si offre come un bozzolo d’arte incontaminata.

Un bozzolo, però. Dopo tanto navigare e a distanza di 6 anni dall’ultima fatica discografica, D’Abbruzzo ritorna per partorire 9 brani in 33 minuti totali, con una cover nel mezzo: a noi sembra un po’ poco. Non è solo per la durata, in sé non necessariamente un limite. Il disco piace, ma non avvince come potrebbe. Alla fine dell’ascolto rimane uno strano senso di insoddisfazione. Persiste la sensazione di incompiutezza, che non si faccia in tempo a calarsi nelle atmosfere che la canzone enunci il suo termine, anzi, a volte nemmeno l’annunci.

Se i brani fossero stati molti di più, avremmo avuto una somma più dignitosa perché avrebbe avuto più senso la concisione delle singole parti. Siamo di fronte, invece, ad un eccesso di sottrazione. In tale prospettiva, la cover di Margherita di Cocciante, ne è il paradigma. I motivi, nocivi, sono molteplici.
Del brano di Cocciante, vestito solo d’intimo, rimane la melodia, se ne ricava un’interpretazione meritevole ma che è mero esercizio, pertinente al resto del disco, ma alquanto slegata. Non basta per giustificare la sua presenza e proprio al centro. È stato quindi sottratto, ingiustamente, spazio ad un brano originale e, a maggior ragione, al disco nella sua interezza.

È forse l’Arancia di Norvegia qui giunta spremuta? La bellezza intrinseca delle composizioni ci suggerisce di no. No, sono i brani stessi a reclamare: più spazio, più tempo, un azzardo musicale in più, di quel genere che non si limita a ‘sostenere’, seppur con eleganza, ma amplifica e rinvigorisce, ricama i rimandi, ricava lo spazio mentale per rielaborare parola, messaggio e umore complessivo. Manca la catarsi.
Agli arrangiamenti, generalmente di gran classe, manca il respiro ampio che hanno L’ultima festa (non a caso vincitrice del Premio De Andrè) e Come acqua (con un accompagnamento di batteria di singolare gusto).

Conoscevamo già molti dei brani finiti su disco, avendoli ascoltati dal vivo; conosciamo a sufficienza l’artista e il suo potenziale. Il salto dal pop all’Arte non è cosa da tutti, ma è nelle corde di D’Abbruzzo e dei suoi comprimari – un ensemble di prim’ordine dal quale Luciano non è da escludere, con Alessandro De Berti (ch), Giancarlo Boccitto (ch), Massimo Franceschina (bs), Matteo Di Francesco (bt) / Jacopo Coretti (bt).
Ad ogni modo, questa è la strada giusta: seppur distillata, l’anima di Luciano D’Abbruzzo è questa. Ma non si fermi e si liberi definitivamente di ogni briglia.

Luciano D’Abbruzzo – “Il guardiano del bosco”
(Pensieri Sbagliati / Sony, 2019)

Ascolto obbligato: L’ultima festa

 

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