ROCK
Madkin
Notturno – Rock
di Angelo D’Elia
RECENSIONE – Dovete sapere che, nella nostra sede, situata su un’isola rigorosamente non segnata sulle mappe, abbiamo un enorme archivio dove giacciono, conservate a temperatura ambiente, miriadi di pubblicazioni accumulate negli anni, di cui, per mancanza di tempo, o di spazio, non si è potuto parlare. Quindi, ogni tanto, ci piace scendere in cantina e tirare fuori quelle più meritevoli.
Questo è decisamente il caso dei Madkin, formazione in attività dall’ormai lontanissimo 2007. Da allora, si sono presi, si sono lasciati, si sono ripresi, con piccoli cambi di organico, lasciando dietro di sé poche testimonianze stampate della loro esistenza, ma tanto sudore sui palchi della Capitale (e non solo). Un EP di 5 pezzi del 2008, Resig(Nation), in cui cominciavano a delineare il loro stile, portato a compimento nel 2012 con il più ‘curato’ Perdone La Molestia, ed evito di molestarvi con le menate delle influenze punk/noise/grunge/post-hardcore e quant’altro, che chi vi scrive è ragazzo semplice e cresciuto in campagna… Diciamo soltanto un bel pugno di canzoni, suonate con il giusto tiro, in equilibrio tra sporcizia e melodia, con testi dai riferimenti alti e la voce di Serena Pedullà a guidare il tutto con fervore.
E veniamo al presente, o meglio, al passato più recente. Nel 2017, dopo ben 5 anni, i Madkin si rifanno avanti con questo disco omonimo – quasi a voler affermare “Hey! Siamo proprio Noi! E siamo ancora qui!” – ed è davvero un peccato che sia passato così in sordina. I 10 anni passati dai primi vagiti si sentono: è il loro lavoro più prodotto e studiato, ammantato da un certo senso di melanconia notturna (come dimostra la bellissima copertina). Non che si siano spenti gli ardori, per carità, ma già nell’iniziale Black Desert si intuisce che qualcosa è cambiato, le ritmiche si fanno più lente ed intossicanti, chitarra e batteria orientate su cadenze e sonorità stoner.
I passaggi più veloci ed abrasivi non mancano, come Cronico, primo esperimento della band in lingua italiana (consigliamo, se e quando ci sarà un futuro, di esplorare ancora di più le possibilità del nostro idioma, perché funziona!), o Molotov, il pezzo che più ricorda il loro passato remoto. Ma i momenti che più rimangono nella memoria, sono quelli che non ti aspetteresti. Come Freaks, dove addirittura tra le trame di basso e chitarra si insinua un synth che ci fa sentire odore di new wave. Gli episodi più riusciti: la conclusiva Being on Another Planet With Kind Pepole, che parte lenta e sognante, la voce di Serena mai così dolce, per poi saturarsi lentamente ed esplodere (gran lavoro di batteria di Flavio Gamboni), ed Open Wound, ballata elettrica per cuori sanguinanti, che si avvale della chitarra di Luca Cartolano. Questo nome, legato a quello degli Aphorisma, non può non emozionare e commuovere chi ha vissuto sulla propria pelle una certa stagione dell’underground romano.
Se nel passato qualcuno poteva recriminare ai Madkin una certa monotonia nella loro genuina furia, questo terzo lavoro testimonia un significativo ampliamento di orizzonti sonori e di una pluralità di direzioni interessanti da poter intraprendere. Speriamo che il loro percorso non finisca qui, quando le cose cominciano a farsi davvero interessanti.
Madkin – “Madkin”
(Autoprodotto, 2017)
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