ROCK


Statale 66 – (Foto di Preziosa Bruno Di Belmonte)

Il sogno è finito, ma continuiamo a combattere

di Angelo D’Elia

RECENSIONE – Nelle puntate precedenti: eravamo giovani, felici ed innamorati. Il nostro unico pensiero era tirare a lucido la nostra moto (o la nostra vespa) per andare a prendere sotto casa la nostra ideale Mary Jane (o Mary Lou, o Barbara Ann), per portarla giù alla spiaggia e folleggiare all day and all of the night. Ora, un anno è passato e qualcosa, inevitabilmente, è cambiato (ved. anche l’intervista di Lester – n.d.r.). Si cresce, arriva la necessità di affermarsi, di trovare un proprio posto nel mondo e quelle giornate folli si coprono di un velo di malinconia e consapevolezza.

Gli Statale 66 continuano il loro viaggio e questo Rock-A-My Head (fresco d’uscita per Goodfellas) ha un forte legame con il precedente Rock Trip Vol. 1, un legame emotivo, più che musicale. Un disco di crescita, come detto in apertura, che testimonia un passaggio ad un’altra fase della vita, una fase in cui bisogna cominciare a fare i conti con le proprie ambizioni e combattere le avversità con le armi più affilate che abbiamo (il Rock, nel caso degli Statale), e questa consapevolezza si riscontra nel sound generale del disco.
Rock Trip ci veniva presentato in una veste scintillante, si percepiva l’enorme lavoro di studio sugli arrangiamenti, un enorme omaggio ad un modo di registrare che personaggi come Phil Spector o Brian Wilson avevano portato allo stato dell’arte. Questo disco invece è più rude, più immediato, se ne avverte l’urgenza, è quasi tutto suonato in presa diretta, con un egregio lavoro sulle chitarre di Alessandro Meozzi, ben più presenti che in passato (si ascolti l’assolo finale di Beautiful’s Gone, per farsi un’idea).

L’album è nettamente diviso in due tronconi, dopo l’iniziale singolo killer Don’t Worry If You’Re Too Young – che sembra uscito fuori da una fortuita collaborazione tra George Harrison e Mark Knopfler – si prosegue con due bei rock-boogie dal sound grezzo, le chitarre colme di riverberi, che fanno pensare agli Stones sovraeccitati e claustrofobici di Exiles On Main Street. Da qui in poi, i ritmi rallentano, si fa avanti un senso di nostalgia, con ballads ad alta intensità come Best Thing You Can Feel, o con la conclusiva Lump In Throat (‘groppo in gola’, chiaro no?), che ripropone quell’atmosfera da ‘fine del sogno’ che ci pervade quando guardiamo le immagini di quell’ultima, storica e struggente esibizione dei Fab Four sui tetti di Londra.

Sono perfettamente conscio di aver snocciolato una serie di riferimenti e paragoni che potreste trovare improponibili ed arditi, oppure potreste pensare che qui stiamo parlando di una cover band sotto falso nome (leggi Greta Van Fleet). Semplicemente – e si può ben capire dall’ascolto – gli Statale 66 hanno imparato a dovere la lezione dei grandi classici, l’hanno fatta propria e tentano di tramandarla nella loro versione, e non c’è nulla di male in questo, soprattutto oggi, che quella lezione si sta estinguendo. I classici sono eterni e proprio per questo tutti devono poterne attingere, ognuno a suo modo.

Statale 66 – “Rock-A-My Head!”
(Goodfellas, 2018)

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