FESTIVAL BLUES

Vieux Farka Touré

Vieux Farka Touré – (Foto di Marco Mancini)

 

On The Road Again

20 e 21 maggio 2017 – Monk (Circolo Arci)

LIVE REPORT – Giunge alla sua tredicesima edizione Il Mojo Station Blues Festival, la kermesse organizzata dall’associazione culturale Mojo Station (grazie all’impegno, al sangue e al sudore riversati da Gianluca Diana e Pierpaolo Moroncelli), che si impegna, ogni anno, per rendere la Capitale il principale crocevia sul suolo italiano di quel misto di influenze storie e culture che va sotto il nome di Blues.
Quello del Blues è un linguaggio universale, fatto per abbracciare ed accogliere tutti (d’altronde, tutti abbiamo dovuto farci carico del nostro bel bagaglio di sofferenze), una cerimonia collettiva che assume una funzione catartica. È proprio per questo che è davvero bello vedere ogni anno facce nuove, sempre più giovani, con cui parlare e confrontarsi, perché è questo lo spirito che da sempre anima il Mojo.

La serata del 20 maggio può essere interpretata come un viaggio nel tempo (e non so quanto la cosa sia voluta), partito dal presente alla grande con i Don Leone (la chitarra slide di Matteo Leone / il cantato di Donato Cerchi). Questo duo di origini sarde non ha paura di strapazzare la tradizione (ma sempre con rispetto), fornendo una versione degli ormai storici standard riletta con una inedita e devastante dose di energia, ed un sound cupo e, soprattutto, sporco. Con i Cyborgs è stato effettuato un salto nel tempo, in un lontano futuro, in cui interpretare la loro versione postmoderna del boogie, in maniera geometrica e cadenzata, tanto ripetitiva da risultare ipnotica, concepita appositamente per ballare, come in una folle collaborazione tra Jon Spencer e i Daft Punk!

Vieux Farka Tourè, attrazione principale del primo giorno, figlio d’arte e portatore di una tradizione che si perde tra le nebbie del tempo, ci ha portati, insieme alla sua band, letteralmente al centro, al centro del mondo, per godere di una forma musicale che non ammette barriere o confini. C’è il blues, il funk, una propensione alla dilatazione che potrebbe essere letta come psichedelia, c’è la tradizione, c’è tutta la sofferenza di un popolo.

Tourè inanella delle progressioni chitarristiche impressionanti, senza tregua, e la sua band non è da meno, eppure ti arriva tutto addosso con dolcezza, quasi cullandoti in uno stato di trance che si trasmette dai suonatori alla platea e viceversa, in un continuo flusso di energia positiva.

 

 

Per la seconda serata del Mojo Station (21 maggio) l’immaginario si è spostato decisamente su altre coordinate geografiche e più precisamente dalle parti delle lande desertiche della California.
Il giovane Marco Contestabile vive ed opera da queste parti ma il suo alter ego Black Snake Moan (il 30 giugno lo ritroverete nella Music Area di Lester) viaggia su tutt’altre latitudini. Completamente calato nel suo personaggio, ha proposto la sua variante oscura e distorta del blues, carica di suggestioni sciamaniche. L’assetto è quello classico da one man band, una chitarra dal retrogusto stoner capace di espandersi per sconfinare nei territori della psichedelia.

Il Blues va affrontato con consapevolezza ed attitudine, e Paul Venturi (tra le massime autorità in materia sul territorio, conosciuto anche oltre i nostri confini) e Simone Scifoni ci hanno offerto una cura per il suono che non esito a definire filologica. Il repertorio è a base di vecchi standard che tutti conosciamo, ma suonarli in quel modo, con quella resa perfetta, non è assolutamente cosa da tutti.

Per concludere, una storia d’altri tempi, riletta però alla luce delle nuove forme di comunicazione.
Non ha avuto vita facile Jack Broadbent: povero in canna, girava per l’Europa armato solo della sua Hofner e di un piccolo amplificatore, si guadagnava il pane suonando agli angoli delle strade, ma i passanti, gli spettatori di quegli spettacoli improvvisati, lo hanno notato, cominciando a riprenderlo, a condividere i video sul web, fino a diventare virali. Merito di un approccio chitarristico unico, scaturito da un’idea semplice ma geniale: suonare la chitarra adagiata sulle ginocchia come una lap steel e adoperare come slide una fiaschetta per il whisky. Oltre ad essere di forte impatto scenico e simbolico (il ‘malted milk’, come lo definiva Robert Johnson, è da sempre carburante d’elezione per i suonatori girovaghi), questa tecnica gli concede una presa decisa e sicura, che gli permette di scivolare sulle corde con una velocità ed una precisione impressionanti (gli occhi strabuzzati dei chitarristi presenti in sala hanno confermato questa tesi).
La XIII edizione del Mojo Station si è chiusa così come dovrebbe chiudersi ogni festival: con una lunga, divertente e sudata jam, questa volta sulle note di On The Road Again dei Canned Heat. (Angelo D’Elia)

 

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