CANTAUTORATO
Agnese Valle (foto di Giorgia Tino)
Lester intervista l’eclettica cantautrice romana
“Ristrutturazioni” è la prova di grande maturità artistica che aspettavamo
di Ilaria Pantusa
Se c’è un aggettivo in grado di descrivere quello che Agnese Valle trasmette attraverso la sua musica, ‘vivace’ è senza ombra di dubbio quello più calzante. In Ristrutturazioni (Maremmano Records, 2020), la cantautrice e clarinettista romana conduce i giochi tra saliscendi e pennellate liriche che stuzzicano l’orecchio e la mente.
Vivacità, per l’appunto, dell’intelligenza, del ritmo, della parola, accarezzata, manipolata come creta, che si fa misteriosa quando deve dire senza rivelare troppo e che si fa sfrontata quando deve dimostrare di non temere niente e nessuno.
Sono puri lampi di bellezza quelli che emergono in brani come Palmo su palmo, che apre il disco con eleganza di melodia e di versi (“Palmo su palmo le mani si fanno bicchiere / Le dita si intrecciano ad innaffiare la sete / E il cuore si accende e l’ortica invade quell’angolo buio del mondo / C’è voluto del silenzio per un campo più fecondo”). O ancora in La terra sbatte, che ospita la ben nota, da queste parti, Piccola Orchestra di Torpignattara e che affronta con sguardo lucido momenti di tragica storia recente, dalla strage del Bataclan al terremoto di Amatrice, a dimostrazione di quanto la vivacità abbia il coraggio di pungere anche là dove può far male.
A proposito di collaborazioni, c’è la canzone scritta a quattro mani con Pino Marino, Come la punta del mio dito, che al Premio Tenco è giunta nella cinquina delle canzoni più belle del 2018.
Quello che Agnese Valle porta avanti in questo disco, il terzo della sua carriera, è un percorso che tocca anche sonorità elettroniche, che si intrecciano in modo estremamente interessante a tutta la strada che è stata fatta fino a questo punto. Ma cosa è, in definitiva, Ristrutturazioni? Lo abbiamo chiesto alla diretta interessata.
Il titolo del tuo terzo album è Ristrutturazioni e in copertina ti si vede seduta su una scala e avvolta da un telo di plastica. Quali sono le ristrutturazioni che hai portato a compimento, dentro e fuori di te, con questo lavoro?
In realtà questo lavoro porta con sé la consapevolezza di un cambiamento innanzitutto personale, umano, quindi sociale. Credo che ognuno di noi nella vita abbia momenti particolarmente densi, stagioni che mettono in campo scelte importanti, interrogativi esistenziali. Sarà il passaggio all’età adulta, la scoperta che in fondo nulla è per sempre e che spesso per ambire ad una rinascita è necessario imparare ad accettare il dolore; sarà che il circostante è in bilico, che è difficile prendere le misure e immaginare un futuro come lo si vorrebbe, che a volte si fatica a comprendere quale posto occupare nel mondo e soprattutto se in questo mondo un posto ci sia.
Tutto questo è raccontato in “Ristrutturazioni” attraverso una metafora di riappropriazione e rinnovamento di sé e degli spazi e un costante dialogo con il mondo fuori da quell’appartamento in ristrutturazione, con l’altro.
Oscilli continuamente tra poesia intima e sguardo tagliente e ironico sui mondi che ti circondano, qual è tra questi due tipi di scrittura quello che ti appartiene maggiormente?
È effettivamente così, nella scrittura come nella vita, oscillo tra la carezza e il pizzico. Forse è proprio il bilanciamento di questi due fattori, che mi appartengono entrambi ed entrambi profondamente autentici, a garantirmi un minimo di equilibrio e di realismo.
Anche negli arrangiamenti e nelle melodie c’è un ottimo equilibrio tra ritmi più posati e ritmi con un’indole più rock ed elettronica: da cosa è stata determinata questa scelta?
Anche questo è un dualismo che mi appartiene e che probabilmente proviene anche dalla mia formazione musicale e dagli ascolti che hanno accompagnato la mia vita. Mi sono sempre definita onnivora dal punto di vista musicale e sicuramente i miei tre dischi ne sono un po’ l’esempio: il primo quasi completamente acustico, il secondo più elettrico e concepito quasi interamente in sala con la band e il terzo, “Ristrutturazioni”, contiene la stratificazione di queste due sonorità, impreziosite dall’elettronica.
Ristrutturazioni è anche un disco corale, da un certo punto di vista. Ci sono collaborazioni di rilievo, tra cui quella con Pino Marino, col quale hai scritto Come la punta del mio dito e che ha suonato in più canzoni, e quella con la Piccola Orchestra di Torpignattara. Molto interessante è anche il tocco dell’Orchestra del 41° Parallelo in Al banchetto dei potenti. Che effetto fa ospitare tanti musicisti nel proprio disco?
Ho sempre considerato la musica un ‘fatto collettivo’. Ho scelto in principio il clarinetto come strumento di derivazione bandistica; orchestrale, ho scoperto la mia voce nel coro delle voci bianche e, da lì in poi, il mio fare musica è sempre stato costellato da esperienze collettive e spesso molto numerose. Il terzo disco desideravo che contenesse questa coralità, che raccogliesse a sé artisti con i quali avevo precedentemente collaborato, come nel caso degli archi dell’Orchestra del 41°Parallelo (della quale sono primo clarinetto e voce solista) e Pino Marino, e nuovi incontri con realtà sorprendenti come la Piccola Orchestra di Tor Pignattara.
“Ristrutturazioni” non è un disco autobiografico (non a caso alcune canzoni sono al maschile), ma vuole essere una narrazione a più voci che si muove dalle fondamenta più profonde alle terrazze più prominenti.
Tra i dodici brani è presente anche una cover, Ventilazione di Ivano Fossati, ma la sua eco è ravvisabile anche in altre zone del disco, così come si percepisce nei tuoi versi l’influenza di De André. Dov’è che finisce la volontà di fare un omaggio e inizia la consapevolezza che alcuni autori e autrici sono parti di sé?
La presenza di una cover nei miei dischi è ormai una sorta di tradizione, in ogni mio album è presente una reinterpretazione di un brano originariamente al maschile: in “Anche oggi piove forte” c’è “Io e te” di Enzo Jannacci, in “Allenamento al buonumore” troviamo “Maledette Malelingue” di Ivan Graziani e qui “Ventilazione”. Sebbene tutti gli autori chiamati in causa abbiano avuto un ruolo importante nella mia formazione, prima di tutto come fruitrice di musica e poi come cantautrice, si tratta sì di un omaggio ma soprattutto di un complemento alla narrazione. Nel caso specifico, “Ventilazione” costituisce una tappa fondamentale di questo percorso costruito come un concept: non a caso “Daremo aria a queste stanze […]” segue una precedente affermazione di “Fame d’aria”, momento di straniamento nel processo di cambiamento e riedificazione. Così le parole di Fossati forniscono la soluzione a quel soffocamento che sopraggiunge tra cadute e slanci di resilienza.
Cosa ti piace e cosa invece non ti piace, al punto che vorresti che cambiasse, del modo in cui a Roma si vive la musica?
Sono appena tornata dalle prime date del “Ristrutturazioni tour” al Nord Italia e devo ammettere che sono rimasta estremamente colpita dalla curiosità, l’attenzione all’ascolto, il silenzio riservato agli eventi musicali. Credevo che la noncuranza, il poco rispetto e la poca curiosità che spesso percepisco a Roma, dove il fatto artistico fa spesso da sottofondo ad altro, fosse un problema estendibile a tutto il paese. Invece no, non è così.
Temo che qui la situazione sia peggiorata vertiginosamente. La città ha perso i luoghi, prima di tutto e con essi il codice per abitarli: ci sono teatri chiusi da anni in pasto ai topi, locali dismessi, abbandonati e ormai pericolanti che avrebbero visto nuova vita se solo dati in gestione a collettivi operosi.
Ci sono poi le mosche bianche, che piano piano, con pazienza e tra mille sgambetti, dedicano la vita alla costruzione dei luoghi d’incontro, ingegno e produzione. Penso all’Angelo Mai, ai ragazzi del Cinema America, al Cinema Palazzo, a Casetta Rossa.
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