BLUEGRASS / JAZZ


Archive Valley (foto di Giovanni Marotta)

Dagli archivi di Lester
Un flusso con la forza di un fiume in piena. Un’esibizione di tale bellezza ed intensità che ce la portiamo dentro ancora oggi…

 

di Angelo D’Elia

Per contrastare le basse temperature che sono arrivate a lambire le nostre ossa, ma non i nostri spiriti, facciamo un bel salto carpiato temporale all’indietro e reimpostiamo le lancette allo scorso 7 giugno, all’inizio di un’estate che si sarebbe rivelata rovente, e all’insegna di una frenetica ripresa dei concerti dal vivo. Ci trovavamo nella splendida cornice dei giardini del Monk, a celebrare con il dovuto entusiasmo il compimento della maggiore età del Mojo Station Blues Festival, giunto gloriosamente al traguardo della diciottesima edizione.
In quella bellissima giornata, culminata con l’esibizione della stella del country Courtney Marie Andrews, intercettammo, subito dopo il soundcheck, coloro che invece avrebbero aperto la serata, con un’esibizione di tale bellezza ed intensità che ce la portiamo negli occhi e nelle orecchie ancora oggi. Stiamo parlando degli Archive Valley, trio di provenienza romana che fa della contaminazione e dell’ibridazione di generi ed influenze la propria cifra stilistica, e quindi la propria forza.

Se qualcosa abbiamo imparato, nel corso degli anni, seguendo con attenzione le proposte di Mojo Station e della scena in generale, è che il blues è un linguaggio in continua evoluzione, che muove da stilemi tradizionali talmente antichi e fondamentali, da essere ormai scolpiti nel tempo e nel DNA di ogni musicista che si rispetti, e proprio per questo totalmente adattabili all’estro e all’attitudine di chi decide di abbeverarsi a questa fonte che non finisce mai di sgorgare.
Ogni linguaggio si adatta ai tempi che corrono. Ed è proprio questo che fanno gli Archive Valley, traendo ispirazione dalla conoscenza enciclopedica del repertorio folk e bluegrass appalachiano del frontman Matan Rochlitz, dotato di una timbrica e di un’estensione vocale impressionanti (una voce molto simile a quella di David Eugene Edwards aka Wovenhand) e che apporta il suo tributo alla tradizione con uno strumento senza tempo come il banjo. Questo stile, poi, va a fondersi con le influenze jazz del contrabbassista Marco Zenini e con l’esperienza da arrangiatore (votato anche al pop da classifica) di Edoardo Petretti che rifinisce il tutto con tastiere e sferzate di badoneon. Il risultato è un ibrido, un flusso difficile da definire in categorie assolute (ed è così che ci piace), ma che ti investe con la forza di un fiume in piena…

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