POP
Calcutta
Evergreen: cambiare per non cambiare
di Stefano Capolongo
RECENSIONE – “Rai invece è nata per ridere dopo la mia partecipazione a Quelli che il calcio. È una canzone quasi… Mediaset. Sembra la sigla di un programma brutto”. In questa frase rilasciata durante un‘intervista a RS, Calcutta racconta in maniera non intenzionale tutto quello che è successo da Mainstream in poi.
Ma facciamo un passo indietro. Il 2015 fu l’anno della rottura definitiva di quella membrana che proteggeva la musica indipendente italiana (in questa sede non entriamo nel merito di cosa significhi ancora la parola indie) per entrare nel sottosopra del flusso principale fatto di radio generaliste, programmi tv nazionali e quotidiani uguali da Aosta a Lampedusa. In quell’anno il secondo album di Edoardo D’Erme da Latina, che raccontava i rapporti interpersonali in maniera così semplice, democratica e cantabile, fondeva la leggerezza e la popolarità della canzone italiana a quel lato oscuro di chi è ancora orfano di una major. Da questa fusione scaturiva un successo abbacinante fonte di scontri tra ultras e detrattori praticanti sempre alla continua ricerca di un capro espiatorio per tutti i mali della musica nostrana.
Proprio contro questi ultimi si rivolge buona parte del lavoro che precede Evergreen: “Alla fine non sono un musicista, mi sono ritrovato a farlo, ma mi sono dovuto rimboccare le maniche, tanta gente diceva che non sapevo fare niente, due accordi e basta. Volevo un po’ rispondere con questo album”. Così, ancora a RS, Calcutta racconta la linea seguita per la riaffermazione dopo un album fondamentale come Mainstream. Stessa attitudine ‘slacker’ e, tornando alla frase d’apertura, la solita voglia di non strafare: Calcutta sembra quasi dirci “va bene la Rai e l’essere famosi ma non scordate che io resto sempre lo stesso”.
Come non aprire il bucolico Evergreen quindi, con un brano (Briciole) che, in preda ad una sindrome depressiva, ci ricorda quanto le nostre esperienze di vita siano infinitesimali rispetto alla macchina del mondo e, per estensione, quanto sia meglio percorrere ancora un po’ la vecchia strada che tanto scompiglio aveva portato nelle sabbie mobili del bel canto. Ma se questo discorso funziona perfettamente ancora per una quindicina di minuti con l’ottimo trittico Paracetamolo–Pesto–Kiwi (quest’ultimo il miglior brano del lotto), lo stesso non può dirsi per la seconda parte dell’album, dove tutto sembra sgonfiarsi tra forzati riferimenti nazional-popolari, geografie da bignami e andature da karaoke (Hubner, Saliva, Nuda nudissima).
Uno sbilanciamento importante che dimostra senza ombra di dubbio che Calcutta non ha pari quando si muove nel suo ambiente, in quella comfort zone da lui ideata ed ampliata dove nuotano in maniera elegante brani come Orgasmo e la già citata Pesto, ad esempio. Diversamente, lo scostamento, seppur minimo, da questo perimetro, restituisce un Calcutta ancora acerbo nonostante le numerose collaborazioni (Tommaso Paradiso, Francesca Michelin). Ma questa non vuole essere necessariamente una critica quanto piuttosto un ennesimo elogio della semplicità, dei tempi dilatati e del rispetto della propria identità. Per il resto c’è tempo. Il ragazzo si farà, per ora lasciatelo essere semplicemente Calcutta.
Calcutta – Evergreen
(Bomba Dischi, 2018)