FOLK / MONOBANDA
Stefano Pump Lee
Un disco de core
di Angelo D’Elia
Ed eccoci, come da consuetudine annuale, di nuovo qui a prenderci e prendervi per mano per entrare nell’atmosfera e nello spirito di quello che per noi è sicuramente “the most wonderful time of the year”. Il Natale ce lo siamo levati dalle balle già da un bel pezzo, quindi no, non si tratta di quello. Non si tratta nemmeno del Festival di Sanremo, che dalla linea temporale da cui vi scriviamo, dovrebbe iniziare le ostilità proprio quest’oggi. Possiamo dire che si parla di qualcosa che condensa questi due grandi eventi di cui si è appena fatto cenno in 3 giorni di pura, liberatoria ed orgiastica gioia. Si sarà ormai capito che è di Invasione Monobanda Vol.8 che si parla! Manca poco più di un mese e Lester come sempre sarà presente per assistere e documentare: non vediamo l’ora di riabbracciare tutti.
Proprio in questo spirito, ci sembrava doveroso recuperare un’uscita discografica dello scorso ottobre, che vede il ritorno al long playing di uno dei veterani della scena che, come annunciato dal patron Freddie Koratella, andrà a chiudere la kermesse con un’esibizione nella nuova location di Sip Bistrot. Stiamo parlando di Stefano Pump Lee e del suo ultimo lavoro Cortelli d’Amore.
Nella galleria variegata ed eterogenea di personaggi che popolano la scena del monobandismo capitolino, Stefano Pump Lee rappresenta la parte più solare e gentile, un folk singer di strada, un menestrello d’altri tempi, che non a caso trae costante ispirazione e linfa vitale da quell’altro menestrello di Duluth Minnesota, recentemente interpretato dal belloccio Timothee Chalamet.
La forza della musica di Pump Lee sta nella sua semplicità e quindi nella sua disarmante sincerità, suonare questo disco dalle casse dello stereo restituisce la sensazione di avercelo lì di fianco a te, armato di armonica ed ukulele, a tirarti su il morale o ad accompagnare le tue malinconie. Merito anche dell’ottimo lavoro di registrazione e missaggio di Matteo Senese (aka Bonny Jack), che nel suo Blues Garden ha saputo proteggere e valorizzare questa semplicità. E cosa c’è di più sincero ed immediato di una canzone d’amore? Perché, se non fosse già chiaro dal titolo, questo è un disco di canzoni d’amore, e segna un bel cambiamento rispetto al precedente lavoro “Pump What? Pump Lee” che, a parte un singolo episodio, era tutto in inglese, mentre in questo caso si è deciso di optare per l’italiano, anzi per il romanesco, per essere precisi, idioma più che adatto per raccontare storie di cuori infranti ed amori non corrisposti.
Ciò che ne esce fuori è una forma di ibridazione estremamente interessante, in cui il folk classico di Phil Ochs, di Dave Van Ronk (o del primo Dylan ca van sans dire) convive e trae nuove ed inaspettate energie dalla ballata e dallo stornello da osteria, due mondi apparentemente inconciliabili – e sottolineo apparentemente, perché la definizione di folk è più ampia di quanto si possa immaginare – che trovano un punto d’incontro proprio nella genuinità di Stefano.
Se del disco precedente scrivevamo che era musica che avresti potuto ascoltare agli angoli delle strade in una giornata primaverile, ora pezzi come Restamo insieme o Bonanotte Chicchè ce li immaginiamo sempre per strada, ma di notte inoltrata, nei vicoli, suonate sotto ad un balcone, dopo una nottata di bagordi, implorando che qualcuno/a prima o poi si affacci. Non mancano episodi più ritmati, come A patacca su a majetta che potreste ascoltare tra i tavoli affollati delle peggiori bettole del Quarticciolo, o You are carina, che se la dedicate alla vostra bella, e la suddetta non si scioglie immediatamente, si vede che proprio non era destino…
Possiamo dire che questo disco, che rimaneggia elementi così antichi ma con un piglio ed una schiettezza che rende il risultato finale così fresco ed accattivante, ci ha in qualche modo conquistati, va giù liscio come un bicchiere d’acqua anzi, di vino, dei Castelli.
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