ROCK / STONER
Fish Taco
L’aratro che stabilisce e segna i confini
di Antonio Perruggino
RECENSIONE – Nelle campagne dell’Agro Romano, nelle quiete dei campi, a suon di zappa, si macina rock duro e grezzo. Lontano dalla frenesia metropolitana della città, Salvatore, Matteo, Daniele, Umberto e John, i Fish Taco, scelgono la campagna romana come luogo dove dare libero sfogo al loro estro musicale.
Qui, percuotere con vigore i propri strumenti su ampli tirati a canna, concilia ripercussioni da schiamazzo con oasi di riflessione. Ed è in questo contesto che nasce Il Suono Dei Campi, il primo album completo della band, interamente autoprodotto e registrato nel luogo dove è stato generato, ad Ardea.
Un album dal sound muscolare e ben definito per essere un’autoproduzione, segno distintivo di quanto la tecnologia avanzi e come, oggi, sempre più facilmente rispetto al passato, si possa seguire il proprio estro creativo senza sottostare ai dettami dell’industria del “mercato di canzoni”.
Quanto di positivo c’è in questo? Quanto un produttore/arrangiatore è d’aiuto all’artista durante la fase di realizzazione di un album?
La band dichiara che “Il suono dei campi è un disco fuori da ogni logica commerciale esistente nel mercato discografico italiano odierno: non vi è alcuna traccia di riferimenti alla ‘musica che va’ in Italia e uno dei messaggi principali è che la band continua a produrre la musica che ama fare senza pensare a quale canale mediatico possa o meno darvi spazio”.
Il Suono dei Campi è dotato di quella carica di energia tale da poterlo considerare un album da inserire nel calderone di band stoner che stanno emergendo negli ultimi anni in Italia. Si percepisce subito nei Fisch Taco l’ascendente del sound che caratterizzò l’intero decennio anni ’90 e oltre, che va dal grunge al crossover. Segnale inequivocabile di come i cinque si siano fatti le ossa suonando brani che spaziavano da Pearl Jam a Rage Against The Machine e che poi, attraverso lo stoner, abbiano sentito l’esigenza di tradurre tutto ciò in qualcosa di proprio.
Degna di sicura considerazione positiva è la scelta di utilizzare la lingua italiana per caratterizzare i testi della loro musica. Opzione questa sicuramente coraggiosa e che, certo, preclude determinati percorsi, ma quando l’istinto di esprimere qualcosa di proprio è talmente viscerale, matura la considerazione plausibile del “Nun ce pò fregà de meno!”.
La voce di Salvatore Tortora, seppur valente, intonata e possente, pecca in metrica. Questo, dovuto sicuramente ad una scrittura di testi per canzoni ancora giovane. Tagliare un po’ di particelle pronominali, aggettivi possessivi, focalizzandosi su parole, concedersi più licenze poetiche più che esprimere un concetto in maniera chiara, renderebbe il tutto decisamente più incisivo (Canali, Capovilla docet).
Confidiamo nel tempo: regalerà a questa promettente band dal nome un po’ bislacco, considerazioni più mature. Torno a chiedermi: dove sarebbe potuta arrivare la valenza artistica del progetto se solo fosse stato affidato ad un producer?
Fish Taco – Il Suono dei Campi (Autoprodotto, 2018)