Recensione
Flavio Giurato
Le promesse del mondo si rivelano solo a naufragio avvenuto
Ascolta il disco Le promesse del mondo
(Entry Edizioni Musicali, 2017)
RECENSIONE – Quando qualcuno fa musica per il gusto di suonare e per l’esigenza di raccontare, dire e comunicare con urgenza temi importanti, lo si avverte fin dal primo ascolto. Sicuramente è così per Flavio Giurato, cantautore romano con all’attivo pochi dischi rispetto ad una carriera che prosegue ininterrotta dal 1978.
Le promesse del mondo è il secondo lavoro in studio prodotto dalla sua casa discografica, la Entry, e segue a due anni di distanza La scomparsa di Majorana, mentre ne sono passati ben dieci da Il manuale del cantautore (Interbeat, M&T 02-07). Tempi non propriamente canonici tra un’uscita e l’altra, così come non sono usuali le durate dei brani del nuovo disco, che non vanno al di sotto dei 5’20’’, arrivando a toccare anche i 9 minuti.
Un tempo dilatato, quello di Flavio Giurato, nel quale è vitale la tensione espressiva, intessuta di atmosfera e parole, che unite insieme creano la narrazione e immergono nella dimensione del racconto.
Le promesse del mondo è infatti un concept album ruota attorno al tema delle frontiere, dei confini e quindi dell’immigrazione, ma parla anche di Roma e delle tante frontiere che la spezzano e feriscono e che a loro volta spezzano e feriscono chi la vive.
È un azzardo che mostra tutto il carattere di questo cantautore anche la scelta di aprire il disco con Sound check, brano di 9 minuti che, tra l’altro, è stato anche scelto come singolo: una canzone-manifesto, se vogliamo, fin dai primi versi (“Vorrei portarti sui luoghi/ perché è sui luoghi/ che noi proiettiamo la nostra ombra/ e non c’è niente di più concreto di più/ tangibile/ della nostra ombra”), ma anche perché in essa compaiono già tre delle quattro lingue in cui l’album è scritto: inglese, italiano e napoletano. La quarta lingua è lo spagnolo, che, mescolandosi all’italiano, chiude l’album con la bellissima Agua mineral.
A livello di sonorità, tra inizio e fine si snoda un percorso che sembra procedere nel buio, per arrivare non tanto ad una luminosità accecante e piena, quanto ad una luce tenue, un’atmosfera quindi pesante che via via si alleggerisce, ma non del tutto, ottenuta attraverso l’utilizzo prominente del basso, che si unisce alla voce profonda di Giurato e a ripetizioni ossessive di versi, per poi placarsi nelle chitarre, che tolgono la scena ai bassi, facendosi anche meno elettrificate e più acustiche. I testi invece restano volutamente criptici e a tratti oscuri, ma è chiaro lo sguardo impietoso e critico sull’attualità.
Ecco che allora compare un “Centro di accoglienza alieni riconosciuto da/ Regione Lazio” (Sound check), mentre “La promessa del mondo” si rivela solo “ora che il viaggio è naufragato” e la “situazione/ appare disumana” persino alla “Marina Militare Italiana” (La promessa del mondo), con riferimento diretto alla tragedia che avviene quasi quotidianamente nel Mediterraneo. Frontiere e confini che acquistano ancor più senso se letti con la lente della storia presente – “si fa presto a dire che non c’è accoglienza/ è un dato acquisito è un fatto accertato/ chilometri e chilometri di filo spinato” (la bellissima I lupi) – e c’è la storia passata, quella della Resistenza romana, raccontata attraverso il ricordo commovente di Ugo Forno, partigiano di appena dodici anni caduto durante l’ultimo giorno di occupazione nazifascista della capitale (Ponte Salario), racconto posto a metà album come monito di ciò che siamo stati e di ciò che potremmo dover essere ancora, se necessario, perché le promesse del mondo sono futuri in bilico che possono svanire in men che non si dica. (Ilaria Pantusa)