BLUES
Andrea De Luca Blues Trail
Bentonia, New Orleans, Chicago and Portland: Blues across the States
di Andrea De Luca
Foto di Andrea De Luca e Andrea Merli
Eravamo nuovamente in viaggio, la nostra destinazione questa volta era Bentonia, che meriterebbe un capitolo specifico. Tanto per cominciare, proprio a Bentonia sono presenti 3 Mississippi Trail Markers, ovvero delle pietre miliari che dal 2006 sono state riconosciute dalla Mississippi Blues Commission come simbolo dell’origine del Blues e della sua evoluzione. Due sono dedicate a due artisti eccezionali che hanno fatto la storia, Skip James e Jack Owens, mentre la terza è stata assegnata al Blue Front Cafe, un piccolissimo locale di fronte ad un incredibilmente iconico passaggio a livello della ferrovia. Bentonia vanta una popolazione di circa 300 abitanti, non è uno sbaglio. È praticamente una strada ed un tratto ferroviario che si incrociano: una realtà unica.
Arrivati al Blue Front Cafe, siamo subito stati catapultati in una sorta di dimensione parallela. Il piccolo locale è praticamente una stanza con un bancone, senza pavimento, con il cemento grezzo ben in vista, fango per terra e una ventina di avventori quasi tutti lì per una birra e quattro chiacchiere dopo il lavoro. Bentonia è un paese basato sull’agricoltura, infatti lo stile per cui è diventata così famosa è il Country Blues. Proprio in questa occasione sono stato così fortunato (e questo è solo l’inizio) da incontrare il mitico Jimmy Duck Holmes, l’unico superstite del Bentonia Blues e proprietario del Blue Front Cafe. È un uomo dalla personalità molto forte, di poche, pochissime parole, gentile ma molto riservato, con lo sguardo così intenso di chi ti dice sempre e solo la verità, per quanto dura o scomoda possa essere.
In ogni caso, l’accoglienza che ci è stata riservata è stata molto calorosa, ci hanno offerto da bere e tutti erano curiosi della nostra visita. Anche qui è stata importante la connessione con la Mojo Station, che non smetterò mai di ringraziare per avermi fatto vivere il vero Blues.
Come al solito, dopo mezz’ora stavo già suonando, con Jimmy Duck Holmes proprio accanto a me che sembrava non essere particolarmente interessato a quello che facevo. Ho pensato: “Sai quanti ne ha sentiti che dicevano di suonare blues e che si sono presentati alla porta del suo locale chiedendo di suonare al festival?”. Quello che è successo è stato decisamente inaspettato.
Dopo aver fatto un breve set di venti minuti, ho smontato le mie cose e mi sono seduto al tavolo per bere una birra che mi era stata offerta da un signore che stava ascoltando con interesse. Subito dopo, la ragazza che gestiva il bancone mi dice che Jimmy Duck le aveva detto che avremmo potuto passare la notte alla Blue Front House, una bella casa vicinissima al locale, posto dove, dal 1948, sono stati ospitati un numero incalcolabile di bluesman provenienti da tutti gli Stati Uniti e non solo. Inoltre, Jimmy mi ha proposto di fare un “Breakfast Blues Concert” la mattina seguente, proprio al Blue Front Cafe. Riuscite ad immaginare quale sia stata la mia emozione? Come dice il mio amico Gianluca Diana della Mojo Station Blues Society, suonare al Blue Front Cafe è come andare all’Università del Blues.
È il 27 gennaio, sono le 11 del mattino e inizio il mio show in un contesto così intriso di storia che non riesco a crederci. La gente è molto interessata ed attenta, improvviso anche una versione rurale del brano “Got To Cry For Peace” scritto contro la guerra tra Israele e Palestina, proprio come è nato, Lap Steel e voce. Dopo un po’ che suonavo, Jimmy Duck Holmes mi viene vicino e mi fa: “Hey kid, let me play with you”. Gli ho offerto di suonare con la mia Stratocaster mentre io ero alla Lap Steel Electro Hawaiian e, super emozionato, abbiamo suonato insieme fino alla fine del concerto. Inutile sottolineare quanto questa esperienza sia stata inestimabile ed indimenticabile. Andando via, dico a Jimmy che cercherò di tornare presto e lui mi fa: “Ed io sarò qui ad aspettarti ragazzo, non fermarti mai, tu hai il Blues ragazzo!”.
Con Bentonia nel cuore e con queste parole così sincere e piene di significato, riprendiamo il nostro viaggio alla volta di New Orleans, dove altre grandi avventure ci aspettano.
Soltanto poche ore e saremmo arrivati nella Parigi del Sud, come viene chiamata dagli americani. Avevo uno show da fare al BJ’s Lounge e un’intervista alla WWOZ, la radio più famosa di New Orleans, ascoltata da milioni di appassionati di musica nera in tutti gli Stati Uniti. Il 29 gennaio è stato il mio turno ed ho fatto un set di un’ora in apertura del concerto del grande Dick Deluxe, bluesman della vecchia scuola, gentilissimo e bravissimo chitarrista.
Prima del concerto, ho ricevuto la graditissima visita di Wako Wade, batterista per Little Freddie King, un’icona del blues made in New Orleans, sul palco del Festival blues della città per 42 anni consecutivi, eletto miglior Bluesman della Louisiana per tre volte e anche lui pluripremiato e da anni parte della Louisiana Hall of Fame. È stato subito molto paterno con me. Se c’è una cosa che ormai ho imparato bene del mondo del Blues, soprattutto quello a stelle e strisce, è che tu sarai sempre il piccoletto, anche se hai 42 anni e una carriera di oltre venti anni alle spalle, non potrai mai competere con questi artisti old school che hanno iniziato a fare tour in giro per gli Stati Uniti all’età di 14 anni o poco più, suonando magari anche più volte al giorno, un concerto a ora di pranzo, uno il pomeriggio e uno la sera.
Ad un certo punto della nostra conversazione mi dice: “I wanna tip you kid, because our life is very hard”. Mette la mano in tasca, conta i soldi tirati fuori e mi dice: “Tieni ragazzo, questo è tutto quello che ho con me, avrei voluto darti di più ma questi 160 dollari ti faranno sicuramente comodo”. Rimango senza parole, la mia commozione è forte e questo gesto non lo dimenticherò mai.
Colmo di grande affetto e senso di fratellanza inizio il concerto di apertura. C’era una bellissima atmosfera, pubblico molto presente come accade di solito e devo confessare che mi ci stavo abituando. Un set intimo dai toni unplugged, ho suonato anche qualche pezzo della tradizione. Tutto è stato molto apprezzato e il tempo passato in un batter d’occhio.
30 gennaio: prima di partire per Chicago mi aspettava l’intervista alla radio più famosa di New Orleans, la WWOZ, che sin dagli anni ‘80 si occupa di diffondere la musica con la M maiuscola, dal Blues al Jazz al Soul ed è assolutamente un punto di riferimento per tutti gli appassionati. Con la scusa di andare in radio abbiamo avuto la possibilità di fare un bel giro in centro città. New Orleans è davvero bellissima, mi ha fatto ricordare molto Roma, per certi versi, ma comunque meno caotica.
Arriviamo alla WWOZ Radio, veniamo accolti veramente alla grande da Marc Stone, chitarrista blues pazzesco che collabora con la Mojo Station da anni. Entriamo in studio, prepariamo tutto, anche per documentare l’intervista ed il live e poterla condividere con voi. Iniziamo, sono molto emozionato. Qualsiasi artista americano di blues, rock, jazz e soul è stato ospite almeno una volta alla WWOZ.
L’intervista con Marc è stata molto naturale, abbiamo parlato del mio progetto, dei programmi futuri e mandato in onda “Going to Tacoma”, brano registrato con Ben Rice, giovane bluesman in ascesa della West Coast. Eseguo dal vivo “Alone” in una versione super old school anche grazie alla mia recente jam con Jimmy Duck Holmes. È impressionante quanto la concentrazione e l’orecchio possano essere dei registratori perfetti e senza alcun problema di spazio di archiviazione (non come i miei computers).
Salutiamo New Orleans con soddisfazione e con la voglia di tornare presto. Direzione Chicago: il giorno seguente guideremo fino a Memphis per prendere un autobus che ci porterà nella città ventosa. Il viaggio, abbastanza pesante e lungo, è stato però un’occasione per portare in Italia il ricordo di queste lunghissime strade, dritte come se non ci fosse un domani, miglia e miglia circondate da paesaggi sconfinati, gli stessi che si vedono nei film, con cartelli pubblicitari che guardano sconfinate praterie.
Arriviamo a Chicago, un freddo cane ma almeno niente neve, andiamo a trovare Nathan, un musicista blues sulla trentina che gestisce un canale YouTube, The Humboldt Jungle, a metà tra un live club di musica dal vivo e un tipico Stand-up comedy. Il mondo è piccolo, ci siamo conosciuti in Olanda al Bourbon Street.
La prima tappa era al Rosa’s Lounge, un locale famosissimo in tutto il mondo, il cui proprietario, Tony Mangiullo, italiano, ormai trapiantato in America da oltre 50 anni, ha voluto invitarmi per conoscerci visto che ero in città. Sul palco c’era il grandissimo Jimmy Burns, leggenda del Mississippi, con la sua straordinaria band, musicisti pazzeschi con collaborazioni incredibili quali Taj Mahal, Koko Taylor e tanti altri numeri uno. Sentiamo i primi due set, suonavano davvero super autentici, con una sezione ritmica imponente, ma poi, tra il secondo e l’ultimo set, qualcosa è successo alla chitarra di Jimmy e non si riusciva a venirne a capo, sembrava non essere possibile continuare la serata. Ad un certo punto Tony mi viene a cercare e mi fa: “Te la senti di suonare l’ultimo set?”, ed io, con la mia Les Paul del 1976 prestata da Nathan che fortunatamente avevo voluto portare, dico a Tony: “Sono qui per questo motivo, certo che me la sento!”. E così è andata, ho suonato l’ultimo set al fianco di Jimmy Burns, tra il suo stupore e quello del pubblico. Ho riscosso un grande successo, preso tanti calorosi applausi, dato decine di bigliettini da visita ma soprattutto mi sono sentito dire da Tony che avrei dovuto suonare tutto il concerto e da Jimmy Burns in persona queste parole: “Hey Andrea, you sounded fantastic, you saved the night”. Inoltre, il concerto era in diretta streaming su YouTube e sugli altri social.
Con questa scena stampata nella mente, tutto documentato dal fedele Andrea Merli, tornavamo a casa di Nathan e la notte continuava: avremmo registrato dei video sfruttando il set dell’Humboldt Jungle, jammando con il tastierista di Buddy Guy, il giovanissimo e talentuoso polistrumentista Daniel Souvigny che ci era venuto a trovare dopo il suo concerto proprio con Buddy Guy.
La giornata successiva nascondeva in sé una grandissima e inaspettata sorpresa: attraverso le conoscenze di Nathan, eravamo stati accreditati per lo show di Buddy Guy al Buddy Guy Legends dove l’artista, il più grande bluesman di tutti i tempi, una leggenda vivente, avrebbe tenuto l’ultimo concerto della sua “residency”, ovvero un mese in cui tutte quante le sere della settimana c’era il suo fantastico show. C’è chi dice che quello sia stato il suo reale ultimo concerto prima del suo ritiro dalle scene. Sinceramente, dopo aver assistito allo “BLUES” per eccellenza, non credo proprio che smetterà di fare concerti. La sua energia è incredibile, alla veneranda età di 87 anni (pazzesco!) se ne va in giro per il locale facendo fischiare quella chitarra come Hendrix, anzi era Hendrix che la faceva fischiare come fa lui. Un intrattenitore nato, la sua voce ha ancora la “canna” di una volta ed è davvero indescrivibile quanto sia forte Mr. Buddy Guy.
La nostra visita a Chicago stava per terminare e ci preparavamo a volare verso la mia amata Portland, in Oregon, sulla West Coast. Questa volta eravamo ospiti del mio “Brother from Another Mother”, il caro Ben Rice, che ci attendeva a braccia aperte e non vedevo l’ora. Dopo un altro viaggio di quasi 9 ore, siamo arrivati a Portland lunedì 5 febbraio, alle sei di sera: sono stato ospite della città più progressista degli Stati Uniti per diversi mesi in passato ed è sicuramente una delle mie preferite.
Una volta arrivati, bussiamo alla porta della casa dove con grande stupore scopriamo che ci stavano aspettando molti dei miei amici bluesmen che avevano organizzato una jam session casalinga nello studio di Ben. Un’accoglienza senza precedenti.
Il giorno dopo, con grande onore, sono stato ospite del nuovo progetto artistico “Ben Rice and the PDX Hustle”, una super band con tanto di sezione fiati con cui ho suonato una manciata di brani in un locale che ha sottoscritto con il gruppo un contratto settimanale. Infatti, tutti i martedì sera sono in cartellone, con uno show davvero notevole, dai ritmi serrati tra il soul e il blues. Ecco, questa è una grande differenza con la nostra amata Italia. Negli Stati Uniti la musica live nei club è ancora un reale business, le paghe sono più che accettabili e l’energia di ritorno che prendi dalla gente è impagabile. C’è un rapporto diverso tra il pubblico e i musicisti. Se non ti conoscono ti vengono a cercare, ti chiedono informazioni su dove poterti ascoltare nuovamente in concerto oppure sui digital stores. Valanghe di biglietti da visita e tanti italo-americani. Siamo davvero ovunque.
Con una grande dose di incredulità si avvicinava la fine di questo tour in America, un mese preciso passato oltre oceano. L’ultima serata: 8 febbraio. Come già raccontato nella puntata dedicata all’IBC, ero stato invitato come ospite d’onore alla serata commemorativa mensile dalla Cascade Blues Association, la Blues Union di Portland che si occupa di preservare il valore del blues locale e non solo. Ho incontrato nuovamente la mia cara amica Rae Gordon con cui abbiamo anche improvvisato uno slow blues in cui mi ha citato cantando: “Andrea learned the Blues in Chicago”. Immaginate quanto mi possa essere sentito lusingato da questa citazione. Anno dopo anno in USA la musica non cambia, infatti anche questa volta decine di persone mi hanno fermato per dirmi: “Ma come è possibile che suoni e canti il blues così, sei proprio sicuro di essere italiano?”. Mi fa sempre gioire questa cosa, è un complimento molto importante per me, lavoro al mio progetto ininterrottamente da oltre vent’anni, cercando di fare sempre del mio meglio e di attirare costantemente l’attenzione del pubblico.
Venerdì 9 febbraio: si riparte, destinazione Roma e poi la Sardegna, dove ormai vivo dal 2020. Avrei riabbracciato finalmente la mia famiglia, mia moglie Carla e i miei due gioielli, i miei figli Miúcha e Jimi (gli ho dato il nome di un chitarrista a caso…). Approfitto di queste note finali per ringraziare ancora una volta la Mojo Station Blues Society, il presidente Pietropaolo Maroncelli e il vice Gianluca Diana per tutto l’aiuto ed il supporto durante questo tour incredibile.
Un grazie grande come una casa va a mia moglie Carla Cocco, cantante formidabile che per un mese si è letteralmente fatta in quattro prendendosi cura dei nostri due bambini di 2 e 4 anni. Ultimo ma non meno importante, il mio abbraccio fortissimo va a mio padre Francesco per il grandissimo supporto che mi ha dimostrato sin dall’inizio della mia carriera artistica. Sia lui che mia madre Angela mi hanno sempre insegnato che gli obiettivi che ci prefiggiamo, quelli per cui viviamo, vanno raggiunti a qualsiasi costo.
Infine, desidero ringraziare la redazione di Lester – Roma per aver ospitato questo lungo racconto, scritto con il cuore per farvi sentire il più possibile partecipi della mia pazzesca esperienza.
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