INDIE ROCK

Panta (foto di Arianna Pannocchia)

“Da vicino nessuno è normale”, ci dicono i Panta con il singolo più fresco, Lady Magritte
Intervista al gruppo romano con le idee ben chiare e ‘le chitarre al centro del villaggio’


di SEO

INTERVISTA – “Da vicino nessuno è normale”, ci dicono i Panta con il singolo più fresco, Lady Magritte, spunto principale per l’intervista ‘a la debita distanza’ di questo straniante luglio 2020. Già, perché il punto è prima di tutto l’esser vicini, arrivarci, poi non temere la prossimità. Con i Panta ci siamo riusciti, anche se non è la contiguità fisica ma quella mentale, di pensieri e parole, la cifra dell’intervista che segue.

Il gruppo romano, pregno di collaborazioni ed esperienze significative a soli 4 anni dalla propria nascita*, da vicino è un essere consapevole e dal battito di lunga gittata, riesce a cavalcare con destrezza la generazione pre come quella post. Interessante… Quanto ci piacciono gli Oasis!? Così sembrano dire con Lady Magritte, mentre continuano a spingere su una profondità ben lontana da tali nomi ‘tutelari’ e che parte da assiomi inconfutabili di era in era, al grido dall’eco infinito de ‘La Rivoluzione è prima dentro di Noi!”.

“Se la tua rivoluzione è ora, la mia rivoluzione è ora”. Il ritornello di Lady Magritte racchiude il concept del brano, un’esplosione di energie positive che chiama ogni sognatrice e sognatore a compiere quei piccoli grandi passi che questo intenso momento – storico, sociale, civile, personale – sembra chiedere a ciascuno di noi”.
Chitarre, sempre e comunque; qui le troverete, citando noi stessi e la recensione di Incubisogni del nostro Stefano Capolongo; chitarre per aprire varchi. “Se siamo in grado di trasgredire alle regole che ci imponiamo possiamo riscoprirci diversi, autentici e vicini, oltre i muri che costruiamo e quelli che abbattiamo”.

* I Panta nascono nel 2016 a Roma: da allora non hanno mai smesso di comporre ed esibirsi, incrociando la propria strada (tra collaborazioni e aperture) con band nazionali e internazionali di grandissimo spessore, come Negrita e Iron&Wine + Calexico, Turin Brakes, Motta e Andrea Ruggiero, Pierpaolo Capovilla, Mogol, Gazzelle, Frah Quintale, Giorgio Canali. Ad esse si aggiungono le esperienze con ong come la David Lynch Foundation e ONE di Bono degli U2.
Alla fine del 2019 son tornati a Oxford e Londra, dove hanno incontrato gli Arctic Monkeys, hanno accompagnato Carlo Verdone a ritirare il riconoscimento della Italian Society e hanno inciso all’Abbey Road Institute con Paolo Violi, con cui torneranno al lavoro per il nuovo materiale.

Il messaggio personale, sociale e storico dei Panta, risiede nell’invito a “trasgredire le regole che ci imponiamo”. Mettiamo l’accento sulle regole e sull’auto-imposizione. Quali le regole? Come e perché ce le imponiamo?
Giulio Pantalei: Ciao, grazie per le belle domande! Dunque, la prima regola che spesso ci si autoimpone nella società contemporanea è quella di abitare lo scorrere del proprio tempo in una “comfort zone” abbastanza limitata, con dei confini segnati frequentemente dalla paura del diverso, che portano a innalzare dei muri (personali, sociali, civili).
La seconda è quella di pensare e agire come se il futuro fosse già scritto, in un presente che è concepito come statico e soprattutto senza memoria del passato, senza capire come si è arrivati ad alcune conquiste – nelle libertà personali e collettive, nei diritti, nell’espressione – che vengono date per scontate e che invece proprio nell’indifferenza vengono svuotate di valore, come già aveva compreso anzitempo Pasolini.
La terza, sicuramente collegata alle due precedenti, è quella di pensare che sia impossibile migliorarsi e risolvere il proprio irrisolto (scusa il gioco di parole!), perché tanto non potremo mai migliorarci e alla fine ti accorgi che “la vita è ciò che ti accade mentre sei sempre occupato a fare altri piani”, ricordando una bellissima frase di John Lennon.
Queste cose in parte ce le imponiamo per paura di affrontare un salto nel vuoto che invece può diventare qualcosa di magnifico, in parte ce le impongono perché più siamo abitudinari nei nostri consumi e nelle nostre azioni più siamo facilmente manipolabili e più continueremo a fare sempre quelle stesse cose a ripetizione; quindi, in questo senso, sono più decisive quelle “interne”, perché se non sei veramente libero tu in primis darai sempre meno peso alla libertà anche all’esterno.
Come band, questi principi di base sono per noi fondamentali, perché per noi il Rock’n’Roll è innanzitutto una forma di libertà, di sperimentazione, di costante sfida creativa sia come singoli che come collettivo. Ed è per questo forse che nelle nostre generazioni – quelle dei nati e cresciuti negli anni ’90 – e in quelle ancor più giovani il Rock sembra non essere più un riferimento, perché ci stanno abituando sempre più ad avere cose preconfezionate e impacchettate, tutte e subito, senza chiedersi da dove arrivano e dove vanno. Trovare un’identità e una passione genuina è sempre più difficile e non è una frase fatta, dopo quasi 5 anni in cui abbiamo girato l’Italia suonando ti possiamo dire che è la cosa davvero più rara da trovare.

“Se la tua rivoluzione è ora, la mia rivoluzione è ora”. Lady Magritte sembra ripristinare un vecchio adagio secondo cui la vera rivoluzione parte da ognuno di noi, interiormente. Esistono ancora i sognatori?
G.P.: Direi che continuiamo molto bene su questo sentiero lennoniano ahah… You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one… È proprio così, la vera rivoluzione parte da ognuno di noi, sempre. Anche i Panta stessi, come progetto e come band, sono nati così: dopo anni un po’ travagliati, dove il mio livello di spleen e svariate altre battute d’arresto mi facevano pensare di essere arrivato al capolinea a nemmeno 25 anni, grazie a un sorprendente incontro personale e a un colloquio con David Lynch a Parigi, per me l’artista di più grande riferimento sul pianeta, ho deciso di intraprendere il mio percorso e ho imparato a Roma la tecnica della meditazione trascendentale. La meditazione mi ha completamente cambiato la vita in meglio ed è stata decisamente la mia rivoluzione, sono cinque anni che la pratico felicemente ogni giorno e anche i Panta – nonché una serie infinita di risoluzioni personali, profonde – sono nati da questo rinnovamento incredibile di energie. Ho re-imparato a sognare, attraversato gli incubi (da questo viene Incubisogni, il titolo del nostro primo album), e capito che il viaggio più bello che si possa compiere è quello dentro di sé. Perciò sì, i sognatori esistono ancora e più ci apriamo a noi stessi e al mondo, più capiamo quanto possiamo diventarlo realmente e quanto possiamo esplorare dentro di noi cose che prima non avremmo mai minimamente immaginato.
(Continua dopo il video)

Vi sentite parte di una generazione o persi in una generazione? Vi sentite ‘diversi’ o riscontrate il giusto interesse fra i vostri coetanei?
G.P.: Un po’ persi in una generazione, forse, almeno finché non riusciremo a dargli noi stessi un colore con delle note e delle parole che ci rappresentano. Lo so, è una sfida grandissima e detto così potrebbe sembrare anche un po’ presuntuoso, ma con umiltà e tenacia è quello che stiamo provando a fare. Perché per noi è davvero importante. Solitamente quando parlo o suono con qualche musicista più grande mi sento dire a metà tra la lacrima nostalgica e una certa incazzatura: “eh, nascere dopo la caduta del Muro di Berlino, grandi sogni, grandi speranze, il Grunge, il Brit Pop, l’Indie italiano e poi invece…”. Perciò noi ci sentiamo un po’ fuor d’acqua perché siamo chiaramente cresciuti – ma proprio da bambini – respirando quell’aria, sarà che ho avuto un rapporto molto precoce con la musica ma davvero ricordo tanto di quell’atmosfera (ce n’è molta infatti nella nostra musica), cioè della musica come forma d’arte e di libera espressione, ma al tempo stesso ci ritroviamo in un mondo che in meno di dieci anni si è completamente mangiato la musica come forma d’arte (tra talent, servizi di streaming e social), per questo è inevitabile sentirsi un po’ “diversi”.
Inoltre, la figura del musicista è diventata molto più vicina a quella dell’influencer, del poser, di quello che si spara la posa figacciona strappa-likes con la citazione sotto, piuttosto che a quella di un musicista che ha dato l’anima sul proprio strumento, sulla propria voce anche senza dover diventare per forza dei fenomeni. Anzi, ormai nella maggior parte dei casi la musica è veramente l’ultima cosa che conta, tanto le etichette ti buttano dentro a una playlist di Spotify e già sa quanto tot di ascolti è assicurato. Giuro che ho visto più “musicisti” nella scena italiana preoccuparsi degli hashtag da usare su Instagram che quelli che parlavano realmente di musica.
Chiudendo su note positive però, ti direi dopo quasi 5 anni on the road che quello dei Panta non è per niente un progetto di nicchia o che ci sia indifferenza da parte dei coetanei o ancor più giovani, pensa che il nostro brano che più è circolato si chiama Così è abbastanza Indie? E ha dentro il testo versi come “Kerouac era qui stasera per creare un’atmosfera”. Oppure “Ora posso dirmi vivo, scusa prima non capivo / che eri fredda come Molly Bloom”. Il pubblico li comprende, se li va a scoprire magari, li canta e a volte ci balla o ci poga pure sopra. Perciò vogliamo comunicare a chiunque voglia sentire.

Da più parti, la vostra qualità più apprezzata è la capacità di fondere sensibilità rock anglosassone e indie italiano, con “le chitarre al centro del villaggio”. Cosa chiedete alla vostra musica?
G.P.: Grazie, non male come frase! Sì, sicuramente dopo anni di autotune e tastierine dai suoni naif (messi ovunque come se piovesse) noi proviamo a riportare gli strumenti suonati e non campionati al centro del discorso, soprattutto quello che in gergo si chiama “interplay” tra i musicisti. Solo così può nascere un sound e un colore che rispecchi quello che si ha da dire, non è un caso che ogni strumento venga valorizzato sia live sia in studio: il basso è una colonna portante, la batteria è sempre molto dinamica e di peso, le chitarre intervengono come fitte trame sulla sezione ritmica.
Forse la cosa più importante che siamo riusciti a concretizzare è proprio questa, insieme a dei testi che riescono a esprimere concetti piuttosto profondi ma in un modo che possa arrivare più o meno a tutti. Perciò quello che stiamo provando ad affinare si muove proprio in questa direzione: riascoltando Incubisogni, che è diviso idealmente in due lati, davvero la seconda parte – quella degli “incubi” – suona molto scura perché certe energie più dark andavano in effetti attraversate e dovevano dire la loro, ma è un po’ ostile all’ascolto… ahaha.
Abbiamo chiesto alla nostra musica di aiutarci a capire che percorso volevamo intraprendere da questo “bivio” onirico e la risposta è nel titolo di un nostro recente brano, Svegliati adesso. Prendiamoci anche la realtà piena, prendiamoci il Rock’n’Roll che vogliamo. Hanno vinto i sogni (per fortuna, direi!), stiamo diventando più efficaci su cosa vogliamo dire e come vogliamo dirlo e Lady Magritte rappresenta una grande svolta in questa direzione.
(Continua dopo il video)

 

Ci sono altri gruppi di Roma con cui condividete una genuina comunione d’intenti? E dove vogliono arrivare i Panta…?
G.P.: A Roma un movimento più “Indipendente” nel vero senso del termine resiste e già questo è un segnale di vita, come diceva il grande Battiato. Siamo però anche onesti, da un punto di vista strettamente musicale, a livello di band su Roma non ci sembra di aver trovato qualcuno della nostra generazione che porti avanti un immaginario originale tra le arti (cinema, letteratura, pittura) con un minimo denominatore di Rock’n’Roll come lo stiamo facendo noi, con la stessa attitudine e la stessa chiarezza di intenti soprattutto.
Se ti dovessimo fare un nome ti diremmo probabilmente Sanlevigo, che stanno cercando un loro sound originale e vengono da ascolti molto vicini ai nostri, sapranno fare belle cose! Con alcuni progetti solisti abbiamo trovato grande sintonia: Andrea Ruggiero, Mustrow, Revif, Silvia Oddi, Lumen di Emanuele Binelli, Favarotti Duo. In ambito di band più Alternative abbiamo stretto amicizia musicale con Domovoi e Cenere, dove c’è lo zampino del nostro Valerio Cascone, che gestisce il The Lab – lo studio dove lavoriamo a Roma – una realtà veramente indipendente e di cuore, come piace a noi.

Panta live al Monk Roma (foto di Mattia Torre)

Vorremmo arrivare perciò a creare un’ondata musicale dove si possa in qualche modo rispecchiare chiunque voglia ancora fare Rock come forma di sperimentazione, a prescindere dal genere specifico o dalla sottocategoria, perché c’è un patrimonio grandissimo che non va dimenticato e tante possibilità espressive ancora da esplorare. È molto dura oggi come oggi, questo è certo, ma noi non arretriamo di un millimetro.

Paolo e Carlo Verdone, Turin Brakes, Motta e Andrea Ruggiero, Pierpaolo Capovilla, Mogol, Gazzelle, Frah Quintale, Giorgio Canali, Calexico and Iron & Wine, Noel Gallagher degli Oasis, David Lynch…
La lista di incontri e collaborazioni eccellenti è già estesa: chi, fra i suddetti nomi, vi ha dato la sensazione di potervi ‘insegnare’ qualcosa?
G.P.: Sono molto schietto e onesto, tutti quelli che hai nominato tranne Gazzelle e Frah Quintale. Perciò, tralasciando loro, dagli altri abbiamo imparato sempre moltissimo: persone e musicisti che davvero hanno passato la vita sul proprio strumento e sul trovare una voce intensa dentro di sé da poter esprimere col mondo, a prescindere da mode del momento o da iniziative fatte a tavolino. In particolare, per quanto mi riguarda, io sono davvero onorato di poter dire che i miei maestri – in carne, ossa e animo – siano stati David Lynch e Carlo con Paolo Verdone, che ho avuto il privilegio di conoscere solo ed esclusivamente grazie alla passione per la musica, per la letteratura e per l’arte.
Basti dire che Carlo (che è anche un super batterista) e Paolo (che è un eccezionale chitarrista di influenza hendrixiana), enormi appassionati di Rock con cui è poi nata una splendida amicizia negli anni, hanno realizzato la prefazione per il mio libro Poesia in forma di Rock uscito per Arcana nel 2016, oltre a un’innumerevole serie di momenti in cui abbiamo suonato insieme che porterò nel cuore sempre.
Per quanto riguarda Lynch, la storia è un po’ più lunga e tocca principalmente la meditazione trascendentale di cui ti parlavo prima, grazie a un’avventurosa vicenda che parte da un treno per Lucca e arriva sorprendentemente in un atelier di Parigi, dove ho passato con lui una mezzora che mi ha cambiato la vita, perché poi sono tornato a Roma e mi sono finalmente deciso a imparare la tecnica. Alla fine della mia rivoluzione personale, dopo circa tre anni in cui si erano già sbloccate energie rinnovate, ho avuto il privilegio di esser invitato dalla Foundation a Lucca di nuovo e l’ho potuto re-incontrare passandoci ancora più tempo. Lo ricordo ancora oggi come il giorno più bello della mia vita.

 

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