COUNTRY
Daniele Marini (foto di Mila Kristina Marini)
Country music… ma de core!
di Angelo D’Elia
RECENSIONE – Generalmente, quando si parla di country, qui in Italia, si pensa sempre ad un approccio parodico o, quantomeno, velatamente ironico alla materia. Si fa riferimento ad un immaginario da ‘spaghetti western’, imbevuto di pistole e cavalcate al tramonto, di cavalli e bovari. Se qualcuno inserisce ‘il pezzo country’ all’interno di un lavoro discografico, lo fa sempre in maniera divertita, fornendo poi un’interpretazione che definire stereotipata, sarebbe eufemistico. No ragazzi, no… la country music è una cosa maledettamente seria.
Togliendo il fascino esoterico di una musica che viene da molto molto lontano, nel tempo e nello spazio, e che è diventata per definizione la musica del diavolo, il country può essere definito come il blues dell’uomo bianco. Il canto di chi ce la fa a stento, di chi lotta ogni giorno per guadagnare il pane, di chi vive una vita ai limiti dell’indigenza ma non si abbatte. Come il blues, il country si basa su pochi accordi, ma per suonarli ci vuole attitudine, conoscenza della materia e, soprattutto, va interpretato con il cuore in mano.
Trovare queste qualità, nel nostro paese, è cosa rara, ed è proprio per questo che ci preme segnalare questo disco di Daniele Marini, anche se con un considerevole ritardo (il lavoro è del 2019), perché è qualcosa di davvero unico e quindi ne vale la pena. Già dal titolo si può intuire una dichiarazione d’intenti: Questa non è Nashville; già, siamo decisamente all’interno del Raccordo Anulare, e ne siamo fieri, interpretando le liriche con calata romanesca (e non in dialetto, precisazione importante), così come negli Stati Uniti questo tipo di musica viene interpretato con un marcato accento del sud.
Ma c’è anche un secondo livello: Nashville non è più la patria del country. Quella che un tempo era la Mecca, la città emblema di un sound che ha contribuito a scolpire gli stilemi del genere, oggi è simbolo di commercialità, di compromesso per blandi passaggi radiofonici, i mercanti sono entrati nel tempio già da molto tempo. Marini, quindi, si rifà esplicitamente a quella banda di reietti che iniziarono una rivoluzione che va sotto il nome di outlaw country, che portò personaggi come Waylon Jennings, Willie Nelson e Billie Joe Shaver a riportare un po’ di sangue e purezza nel panorama ormai smorto del genere.
Registrato nello Studio 66 di Alessandro Meozzi (Statale 66: in qualche modo, nel disco, ci sono anche loro), il lavoro ha un sound levigato, pulito, ma estremamente naturale, da presa diretta, volto a catturare il momento, senza troppi fronzoli e sovraincisioni. Si avverte il gusto di suonare insieme e si ha la netta impressione che, quando a volte il pezzo sfuma sul finale, la band sia andata avanti a darci dentro per ore. Come capita nel pezzo d’apertura Je Frega Assai, acre invettiva contro un certo populismo dilagante ed unico pezzo dal piglio più marcatamente rock, grazie anche all’inserto della chitarra elettrica di Meozzi stesso (e quando c’è da alzare il tiro, il ragazzo non si risparmia, lo sappiamo fin troppo bene). Ampio spazio anche per ballad malinconiche ad alto tasso emotivo – come la title track, che racconta la storia di una vita, riecheggiando Townes Van Zandt – in cui in più di un’occasione ci si avvale della voce di Mary Di Tommaso per le armonie vocali, perché nell’amarezza del quotidiano un po’di miele può lenire le sofferenze.
Marini si avvale di musicisti di prim’ordine, come Luca Forte, che con il suo banjo si diverte come un matto nel bluegrass di La Morte in Faccia (forse non il pezzo migliore, ma in redazione ha spopolato!), o come Flavio Pasquetto, protagonista assoluto con i suoi sapienti ricami di pedal steel, vero valore aggiunto dell’opera. Se ne sono accorti anche oltre oceano, dove è stato chiamato dai texani Asleep At The Wheel (una delle più importanti country band al mondo) ad unirsi alla banda…
Daniele Marini – “Questa non è Nashville”
(G&M RECORFONIC, 2019)
Ascolto obbligato: La morte in faccia