ONE MAN BAND


Branquias Johnson (foto di Giovanni Marotta)

 

“Io sono la Tempesta”

10 anni di festival celebrati al massimo


di Angelo D’Elia

 

INVASIONE MONOBANDA VOLUME 7. Basterebbero anche soltanto queste tre parole e questo numero, e si potrebbe tranquillamente chiudere qui, in maniera esaustiva, senza aggiungere altro. Già, perché ciò che abbiamo imparato in questi anni di dedizione al movimento ed alla cultura monobanda è che per arrivare dritti al cuore pulsante delle cose, bisogna semplificare, spogliarsi degli orpelli per cogliere l’essenza. Il rock n’roll lo si può analizzare, scomporre, schematizzare e teorizzare fino a renderlo canone… ma non è materia per eruditi.

 

 

Si tratta di un impulso, di una scintilla che scocca tra chi suona e chi ascolta, un patto ancestrale suggellato dai demoni che abitano in noi, che si liberano per uno sfrenato rituale fatto di corpi che si attraggono, di mani e piedi che battono furiosamente il tempo. E allora cosa aggiungere, come spiegare? Si potrebbe forse dire che, probabilmente, questa sia stata l’edizione più bella, furiosa e partecipata di quello che ormai abbiamo orgogliosamente ribattezzato “Il festival più rumoroso in città”. Qualche maligno potrebbe opinare che questo racconto ormai è una consuetudine e che si potrebbe scrivere anche da solo, con l’ausilio di un’intelligenza artificiale, ma ciò contravverrebbe a quanto scritto fin ora. Invasione Monobanda è fatta di suoni, umori e sapori che vanno sperimentati sulla propria pelle ed è, quindi, dalla viva voce di questo corpo malandato ma felicemente vivo, che vi andiamo a raccontare cosa abbiamo vissuto.

 

 

 

Nella serata “Preview” del 29 febbraio al 30 Formiche, oltre ad aver intervistato THE LEGENDARY STRANIERO, ci siamo innamorati dell’artista principale in programma, TEQUILA SAVATE. Approfondiremo la conoscenza del Tequila in un’altra occasione, ma giustizia impone che non rimangano nell’ombra scatti memorabili dell’esibizione, utili anche a giustificare il colpo di fulmine di Lester. (n.d.r.)

 

 

Il festival vero e proprio ha inizio venerdì 22 marzo, in quella che ormai si può definire la residenza ufficiale della scena monobanda, ovvero DischixFiaschi, il luogo da cui tutto parte, il quartier generale dove Freddie Koratella e la sua partner in crime Fiammetta Gigantino pianificano e coordinano tempistiche e modalità dell’invasione. In un pomeriggio soleggiato e piacevolmente affollato da appassionati e da protagonisti veri e propri della scena, facciamo la conoscenza del primo nome in cartellone. Se per iniziare bisogna partire dalle radici, MAX FORESTIERI ne incarna pienamente lo spirito. Un bluesman d’altri tempi, di poche ma misurate parole, con lo sguardo vivo di chi ne ha viste davvero tante lungo il cammino. Quando finalmente si siede, imbraccia la chitarra rezofonica e comincia a battere il tempo sulla stompbox, il mondo attorno a noi si scolorisce in tonalità seppia. Vero puro e solido country blues suonato senza amplificazione, la chitarra che suona e rimbomba come un’orchestra, un monumento scolpito nel granito allo slide blues: magia pura!

 

 

La sera del 23 marzo, si entra nel vivo con la serata più “pericolosa”, quella dove non si fanno prigionieri e da cui si esce con le ossa rotte: la serata al Trenta Formiche. Il bunker del Mandrione apre i battenti alle 20:00 e ad aspettarci troviamo un gradito fuori programma. STEFANO PUMP LEE, armato di ukulele ed armonica a bocca, spunta fuori ad allietare i presenti con un breve ma energico set, un pifferaio magico in versione Joe Strummer che ci dà il benvenuto e che, come un araldo, ci annuncia che è tempo di entrare.

 

 

Appena entrati, c’è già ad attenderci MR. LEMON in postazione. Armato di cassa rullante e basso, ci trasporta nel suo mondo demenziale fatto di sonorità sporche e sature ai limiti del tollerabile. I testi sono in italiano ed orgogliosamente dementi, l’utilizzo del basso suonato come una chitarra impestata di fuzz, contribuisce a creare un’atmosfera da manicomio criminale, ma c’è anche spazio per la dolcezza. Una chitarra acustica, un paio di poppe finte (lanciate alla folla ed indossate un po’ da tutti durante la serata, se cercate bene, forse sono ancora lì…) ed un nome nel cuore: “Angela White, che effetto mi faaaiiit”, il tormentone dei giorni a venire.

 

 

Il tempo di levarsi le protesi di dosso (eh già, anche chi scrive ha provato l’ebbrezza) e di correre verso la sala bunker, e ci ritroviamo di fronte a MR. DEADLY ONE BAD MAN che si staglia minaccioso sul palco. Vero e proprio veterano della scena e del festival, era da tempo che Daniele Fioretti aveva dismesso questi panni in favore di quelli più pacati di Mr. D (progetto alt country di altissimo livello), era quindi smodata la voglia di tornare a spaccare tutto. Un macigno, una sfuriata di blues e rock n’roll che ti investe con la potenza di un treno merci, inarrestabile nel suo incedere quasi solenne. Qui non c’è molto da descrivere, stiamo parlando delle basi, c’è soltanto da approssimarsi quanto più possibile al palco e godere.

 

 

Quest’anno l’organizzazione è davvero certosina, i live si susseguono da una parte all’altra del locale senza soluzione di continuità, l’effetto comincia a diventare straniante, quindi ci si fionda immediatamente ad accaparrarsi un posto in prima fila per l’esibizione di un’altra vecchia conoscenza. THE BLUES AGAINST YOUTH è ormai una garanzia e l’occasione è speciale perché qui si celebrano 15 anni di carriera, e questa esperienza la si percepisce tutta durante l’esibizione. Se Mr. Deadly ti travolge, TBAY è più subdolo, lui ti circuisce. Come uno spirito maligno cerca di sedurti, di farti danzare insieme a lui, con il suo mix di raw blues ed outlaw country sotto anfetamina riesce a farti battere le mani e a farti urlare “yyyhaaa” come il peggiore dei redneck con svariati litri di Lone Star in corpo… Maledetto.

 

 

Il tasso di eccitazione e di traspirazione generale è ormai quasi al limite quando ci si sposta di nuovo in massa e ci si trova al cospetto di Lui, della creatura mitologica in persona, dell’animale umano, o uomo animale, insomma l’uomo cavallo! ONE HORSE BAND lo avevamo già incrociato qualche anno fa proprio qui al Trenta Formiche e da allora, oltre alla sua testa (una vera opera d’arte, a guardarla da vicino) anche il suo sound si è ingigantito. Se prima il blues era la sua matrice ora, pur rimanendo fedele al verbo, lo spettro è più ampio, tra momenti punk rock, svisate di sintetizzatore e riff di stonesiana memoria. Momento da ricordare, anzi da tramandare: in chiusura del live se il cavallo non salta tra il pubblico, è il pubblico che salta sul cavallo. Il nostro Horse ordina alla folla in delirio di creare un corridoio nel mezzo e di scegliere un temerario da un lato ed una temeraria dall’altro, da poter letteralmente lanciare sul palco, chi arriva prima vince la gloria, e tanto affetto. Chi ha vinto? Non si è ben capito, ma è stato bello, folle, matto… come un cavallo!

 

 

Dobbiamo spostarci di nuovo, la percezione del tempo e dello spazio cominciano a vacillare ed è in questo stato semi confusionale che ci ritroviamo al cospetto di ONE MAN BUZZ. Toscano d’origine, Pisano quando si trova a Livorno e Livornese quando si trova Pisa (testuali parole), proprio per questo indossa la maschera da luchador, forse è in lotta anche contro sé stesso. È in lotta con la sua chitarra, che ha suoni cupi e ronzanti e che sfrega in maniera lasciva contro un theremin per risultare ancora più urticante. Quindi forse è in lotta anche con il pubblico, ma è uno scontro da cui usciamo tutti vincitori.

 

 

Ultimo cambio palco, stanchi, stremati e con tasso alcolemico generale da far riabilitare il proibizionismo, giungiamo al culmine della serata, l’ospite straniero, il grande, grandissimo, enorme, meraviglioso BRANQUIAS JOHNSON, direttamente dalla Spagna. Questo omone immenso, un incrocio tra Meat Loaf e l’omino dei marshmellow dei Ghost Busters, si erge sul palco della sala bunker brandendo una chitarra che in mano a lui sembra un ukulele, e quando attacca a suonare, le cose vanno del tutto fuori controllo. Un punk n’ roll tiratissimo e devastante, senza un attimo di tregua, che fa scatenare un pogo gioioso e costante, è pura energia rock n’roll, è la quintessenza del monobandismo, semplice, diretto, inarrestabile. Un attimo di respiro lo abbiamo quando scende dal palco e si fa largo tra la folla per cantare con la sola voce un qualcosa a metà tra il soul ed il flamenco, ma dura poco, perché ritorna sul palco e si riparte. Ed è qui che viviamo il momento perfetto, quando nella foga generale vediamo una figura letteralmente ascendere. Freddie Koratella viene alzato dalla folla e portato in trionfo, e se Freddie vola, vuol dire che il festival vola, e se il festival vola, ci alziamo in volo noi tutti.

 

 

Terza giornata, domenica mattina, domenica delle Palme per qualcuno, un altro tipo di celebrazione per noialtri. La sera precedente è stata di quelle intense, indimenticabili, estenuanti, eppure a mezzogiorno, visibilmente segnati, sono ancora tutti presenti, da Fax Factory, che rinnova la collaborazione con Invasione Monobanda dopo il successo dell’edizione passata. Nei programmi iniziali doveva essere Davide Lipari a chiudere il festival, ma per questioni logistiche non è potuto intervenire, e di questo ci dispiace. A sostituirlo, un’altra vecchia conoscenza del festival e di tutti noi. BLACK SNAKE MOAN suona in un’atmosfera irreale, con una folla di gente sia dentro che fuori il locale ad assistere rapita ai suoi rituali sciamanici ed un raggio di sole che filtra tra i palazzi ed illumina il piccolo palco allestito che dà al tutto una luce quasi mistica.

 

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