BLUES


Sì grazie, il caffè mi fa stare bene

di Angelo D’Elia

Qualche settimana fa abbiamo avuto occasione di parlarvi della Bloos Records, etichetta indipendente fondata da Simone Scifoni, che si occupa di produrre, distribuire e diffondere le più interessanti e promettenti realtà legate alle dodici battute, nell’ambito di Roma e non solo. Proprio nella conversazione con Scifoni, si era parlato dell’estrema varietà che contraddistingue questa etichetta e le sue pubblicazioni, che hanno sempre e comunque il blues come ragion d’essere, ma che permettono di esplorarlo in ogni forma e declinazione. Il disco di cui andiamo a parlare, è un’ulteriore conferma di questo tipo di approccio eclettico.

Lino Muoio ha alle spalle un bagaglio di esperienza e collaborazioni non indifferente. Membro fisso della migliore e più longeva blues band partenopea (e tra le migliori dello stivale) i Blue Stuff, le sue abilità da polistrumentista lo hanno portato in giro per il mondo a suonare con vere e proprie leggende come Corey Harris, e a perfezionare la tecnica su quello che è diventato il suo strumento d’elezione, il mandolino. Già, il mandolino, strumento dalle infinite possibilità, utilizzato ampiamente nel folk e nel bluegrass di matrice americana e allo stesso tempo croce e delizia di ogni musicista di origine partenopea; un suono che scorre nelle vene di una città come Napoli e reso negli anni stupido e sterile stereotipo per inquadrare e sbeffeggiare una personalità, un’attitudine, che non si potrà mai comprendere fino in fondo se non ci si ha direttamente a che fare.
Ed è questa la chiave per interpretare un disco come Vedo Napoli e poi Muoio, utilizzare proprio il mandolino come grimaldello per scardinare certi ottusi luoghi comuni, prendere tutta l’esperienza fatta lungo il cammino, prendere il meglio da due grandi tradizioni, quella americana e quella napoletana, e riportare tutto a casa.

Quarto capitolo della serie Mandolin Blues, nei capitoli precedenti Muoio si era cimentato nell’esplorare le possibilità di questo particolare strumento nell’ambito di sonorità che non appartengono a questa terra, quest’ultimo capitolo ha quindi il sapore della chiusura di un cerchio. Si cimenta con il dialetto napoletano per la prima volta in solitaria, confermando – se ce ne fosse ancora bisogno -, che la sua cadenza e la sua musicalità si sposano perfettamente con le ritmiche in dodici battute. Se nei dischi blues americani contemporanei si omaggiano i grandi standard, qui si omaggiano i grandi classici come Dicitengello Vuje (vedi Dicintengello Boogie) piuttosto che I’ve Got My Mojo Workin’ (di cui comunque si sente l’eco in Siente Mama).
Gli arrangiamenti stanno spesso in bilico tra le big bands del blues di Chicago e l’andamento swing dell’orchestra di Carosone, come accade in Speak No America, dove per una volta ci si permette di sbeffeggiare bonariamente i tormentoni del blues d’oltreoceano. Soprattutto, al di là degli intenti, questo è un disco che suona ed è suonato da dio. Con una sezione ritmica che macina e non perde un colpo, inserti di piano e di armonica che sanno davvero di blues autentico ed il mandolino di Lino muoio a ricamare armonie che compattano il tutto.

Credo che il senso di questo disco lo si possa riassumere nel bell’esperimento di ‘O Cafè, ovvero prendere l’indimenticabile pezzo sul caffè di Edoardo De Filippo, una delle più meravigliose ed autentiche schegge di napoletanità che la storia ricordi, metterci in sottofondo un accompagnamento da honkytonk e farlo diventare uno spoken blues, facendo così convivere perfettamente e serenamente le due tradizioni. Mai più un musicista napoletano deve vergognarsi di suonare il mandolino!

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